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IL GRAN VIAGGIO DI AGATA Faceva un caldo micidiale e sul binario regnava il caos. Bambini esaltati correvano da tutte le parti e la mamma mi salutava piangendo come se non dovesse vedermi più per molti anni. In realtà la gita di classe sarebbe durata solo una settimana. Una settimana a Ulm con la maestra, la signora Salici, e il signor Holm, il professore di educazione fisica. Ulm era una città da qualche parte in basso a sinistra… Finalmente è arrivato il treno. Io volevo assolutamente mettermi nello scompartimento con Richard, Bernard e Tom, Susanne e Christiana. Era tutto un gran spintonare e sgomitare. Tom avanzava a fatica dal fondo dello stretto corridoio, aveva una pancia più sporgente del solito. Bernard gli stava dietro. Io e Richard arrivavamo dalla parte opposta, Susanne e Christiana si erano piantate davanti a uno scompartimento vuoto e tenevano i posti. Abbiamo buttato dentro gli zaini e ci siamo affacciati al finestrino a salutare i nostri genitori. Il capostazione ha fischiato e il treno è partito, poi ha fatto una curva e sono spariti tutti. Lo scompartimento era davvero super. Abbiamo tirato in avanti i sedili formando un unico grande letto e ci siamo messi comodi, ma quando Christiana ha posato lo sguardo sulla pancia di Tom ha lanciato un urlo. La pancia di Tom si muoveva, qualcosa si spostava sotto la sua camicia. Tom ha alzato la stoffa. Sulla pancia cicciottella di Tom una tartarughina si muoveva sulle sue buffe zampette. Questa è Agata ha detto Tom. Il patatrac è successo il quarto giorno. Cari bambini, ha iniziato la maestra, oggi andremo a fare un’escursione in montagna, al Blautopf, un laghetto molto lontano dall’ostello, con un’acqua tutta blu. Christiana ha domandato quanto fosse lontano, e il professor Holm ha risposto beh, c’è da fare una camminata di quindici chilometri. La signora Salici ha sorriso al professore, che l’ha ricambiata con i suoi dentoni bianchi da sportivo. Quindici chilometri, ha pigolato Susanne. Andata e ritorno sono trenta, ha infierito Christiana. Quei due sono pazzi, ha bisbigliato Richard. Non sono pazzi nemmeno un po’, ha commentato Susanne, sono cotti e siamo fortunati che non ci facciano camminare per cento chilometri, perché agli innamorati non importa niente di niente. Bernard ha chiesto a Susanne come faceva a sapere che erano innamorati. Susanne lo ha guardato come se fosse la persona più stupida del mondo. Le donne certe cose le sentono, ha bisbigliato. Quando due persone sono innamorate, c’è una vibrazione speciale nell’aria. Io non avverto nessuna vibrazione, ha confidato Bernard a Susanne. Aspetta e vedrai. Cinque ore più tardi Tom era seduto su un tronco d’albero in riva a quello stupido laghetto, che non era per niente azzurro, e piagnucolava che aveva le vesciche ai piedi. Aveva posato accanto a sé lo zaino con dentro Agata. Era rosso per la fatica e sudava da matti. A me la camminata era piaciuta. C’eravamo raccontati barzellette e avevamo cantato. Ogni tanto osservavamo la signora Salici e il signor Holm per non perderci qualche eventuale vibrazione. Arrivati al Blautopf la signora Salici naturalmente era estasiata, Susanne sosteneva che avrebbe trovato esaltante pure un mucchio di letame, tanto era cotta. Poi, è successo. Tom si è alzato sul tronco e mentre saltellava da una vescica all’altra, inavvertitamente ha urtato lo zaino, che ha fatto splash ed è finito nel laghetto. Con Agata dentro. Christiana ha lanciato un grido. Tom si è messo a frignare, Agata annega, lui non sapeva nuotare e nemmeno Agata, perché era una tartaruga di terra. La maestra ha domandato, quale tartaruga? Poi c’è stato un secondo splash, Bernard si era tuffato al salvataggio dello zaino. Il terzo splash era di Susanne, lanciata dietro Bernard. Il quarto della signora Salici, per seguire i suoi due alunni. Ci siamo messi tutti a strillare come pazzi, correndo sulla riva. Era uno spettacolo vedere loro tre nuotare in mezzo al laghetto. Bernard aveva recuperato lo zaino e lo teneva alto sopra la testa, Susanne aveva afferrato Bernard con una vera presa da salvataggio e lo trascinava a riva. Richard li ha aiutati a uscire dall’acqua. La maestra avrebbe anche potuto rimanere là, tanto l’acqua le arrivava solo fino al seno. Quando tutti ormai erano usciti dall’acqua, il signor Holm è arrivato di corsa. La signora Salici si è gettata tra le sue braccia, come in un film d’amore, spruzzando gocce d’acqua in tutte le direzioni. Poi il signor Holm l’ha baciata sul serio, mentre diceva Giovanna, amore mio, mia amata! Tom ha tirato fuori dallo zaino Agata, che si era solo un po’ bagnata, se l’è messa davanti al viso e le ha sussurrato Agata, mio unico grande amore, poi l’ha baciata sul guscio. Tutti si sono sbellicati dal ridere. Grazie al cielo la maestra e il signor Holm non si sono arrabbiati con Tom per via di Agata. La cuoca dell’ostello ha preparato un piattino di insalata verde apposta per lei. Dopo cena ho portato Agata in camera. Le ho accarezzato il guscio e lei ha agitato le zampette. Mi sono affacciato alla finestra e sul prato di sotto ho visto Bernard seduto accanto a Susanne, che si tenevano per mano. Quando lei gli ha dato un bacio sulla guancia, ho capito perché quel pomeriggio si era tuffata dietro a lui. L’aria era piena di vibrazioni. (Tratto e adattato da: Steinhöfel A., traduzione di Petrelli A., Dirk e io, BEISLER editore, 2017, Roma)
A12. Agata è un personaggio che, anche se non agisce direttamente, ha un ruolo importante nello sviluppo dell’intero racconto. Perché è importante il suo ruolo? Agata è importante perché b) è l’elemento che dà inizio alla scena del lago Si NO
si
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2023_05_SNV_A
binaria
si
no
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IL GRAN VIAGGIO DI AGATA Faceva un caldo micidiale e sul binario regnava il caos. Bambini esaltati correvano da tutte le parti e la mamma mi salutava piangendo come se non dovesse vedermi più per molti anni. In realtà la gita di classe sarebbe durata solo una settimana. Una settimana a Ulm con la maestra, la signora Salici, e il signor Holm, il professore di educazione fisica. Ulm era una città da qualche parte in basso a sinistra… Finalmente è arrivato il treno. Io volevo assolutamente mettermi nello scompartimento con Richard, Bernard e Tom, Susanne e Christiana. Era tutto un gran spintonare e sgomitare. Tom avanzava a fatica dal fondo dello stretto corridoio, aveva una pancia più sporgente del solito. Bernard gli stava dietro. Io e Richard arrivavamo dalla parte opposta, Susanne e Christiana si erano piantate davanti a uno scompartimento vuoto e tenevano i posti. Abbiamo buttato dentro gli zaini e ci siamo affacciati al finestrino a salutare i nostri genitori. Il capostazione ha fischiato e il treno è partito, poi ha fatto una curva e sono spariti tutti. Lo scompartimento era davvero super. Abbiamo tirato in avanti i sedili formando un unico grande letto e ci siamo messi comodi, ma quando Christiana ha posato lo sguardo sulla pancia di Tom ha lanciato un urlo. La pancia di Tom si muoveva, qualcosa si spostava sotto la sua camicia. Tom ha alzato la stoffa. Sulla pancia cicciottella di Tom una tartarughina si muoveva sulle sue buffe zampette. Questa è Agata ha detto Tom. Il patatrac è successo il quarto giorno. Cari bambini, ha iniziato la maestra, oggi andremo a fare un’escursione in montagna, al Blautopf, un laghetto molto lontano dall’ostello, con un’acqua tutta blu. Christiana ha domandato quanto fosse lontano, e il professor Holm ha risposto beh, c’è da fare una camminata di quindici chilometri. La signora Salici ha sorriso al professore, che l’ha ricambiata con i suoi dentoni bianchi da sportivo. Quindici chilometri, ha pigolato Susanne. Andata e ritorno sono trenta, ha infierito Christiana. Quei due sono pazzi, ha bisbigliato Richard. Non sono pazzi nemmeno un po’, ha commentato Susanne, sono cotti e siamo fortunati che non ci facciano camminare per cento chilometri, perché agli innamorati non importa niente di niente. Bernard ha chiesto a Susanne come faceva a sapere che erano innamorati. Susanne lo ha guardato come se fosse la persona più stupida del mondo. Le donne certe cose le sentono, ha bisbigliato. Quando due persone sono innamorate, c’è una vibrazione speciale nell’aria. Io non avverto nessuna vibrazione, ha confidato Bernard a Susanne. Aspetta e vedrai. Cinque ore più tardi Tom era seduto su un tronco d’albero in riva a quello stupido laghetto, che non era per niente azzurro, e piagnucolava che aveva le vesciche ai piedi. Aveva posato accanto a sé lo zaino con dentro Agata. Era rosso per la fatica e sudava da matti. A me la camminata era piaciuta. C’eravamo raccontati barzellette e avevamo cantato. Ogni tanto osservavamo la signora Salici e il signor Holm per non perderci qualche eventuale vibrazione. Arrivati al Blautopf la signora Salici naturalmente era estasiata, Susanne sosteneva che avrebbe trovato esaltante pure un mucchio di letame, tanto era cotta. Poi, è successo. Tom si è alzato sul tronco e mentre saltellava da una vescica all’altra, inavvertitamente ha urtato lo zaino, che ha fatto splash ed è finito nel laghetto. Con Agata dentro. Christiana ha lanciato un grido. Tom si è messo a frignare, Agata annega, lui non sapeva nuotare e nemmeno Agata, perché era una tartaruga di terra. La maestra ha domandato, quale tartaruga? Poi c’è stato un secondo splash, Bernard si era tuffato al salvataggio dello zaino. Il terzo splash era di Susanne, lanciata dietro Bernard. Il quarto della signora Salici, per seguire i suoi due alunni. Ci siamo messi tutti a strillare come pazzi, correndo sulla riva. Era uno spettacolo vedere loro tre nuotare in mezzo al laghetto. Bernard aveva recuperato lo zaino e lo teneva alto sopra la testa, Susanne aveva afferrato Bernard con una vera presa da salvataggio e lo trascinava a riva. Richard li ha aiutati a uscire dall’acqua. La maestra avrebbe anche potuto rimanere là, tanto l’acqua le arrivava solo fino al seno. Quando tutti ormai erano usciti dall’acqua, il signor Holm è arrivato di corsa. La signora Salici si è gettata tra le sue braccia, come in un film d’amore, spruzzando gocce d’acqua in tutte le direzioni. Poi il signor Holm l’ha baciata sul serio, mentre diceva Giovanna, amore mio, mia amata! Tom ha tirato fuori dallo zaino Agata, che si era solo un po’ bagnata, se l’è messa davanti al viso e le ha sussurrato Agata, mio unico grande amore, poi l’ha baciata sul guscio. Tutti si sono sbellicati dal ridere. Grazie al cielo la maestra e il signor Holm non si sono arrabbiati con Tom per via di Agata. La cuoca dell’ostello ha preparato un piattino di insalata verde apposta per lei. Dopo cena ho portato Agata in camera. Le ho accarezzato il guscio e lei ha agitato le zampette. Mi sono affacciato alla finestra e sul prato di sotto ho visto Bernard seduto accanto a Susanne, che si tenevano per mano. Quando lei gli ha dato un bacio sulla guancia, ho capito perché quel pomeriggio si era tuffata dietro a lui. L’aria era piena di vibrazioni. (Tratto e adattato da: Steinhöfel A., traduzione di Petrelli A., Dirk e io, BEISLER editore, 2017, Roma)
A12. Agata è un personaggio che, anche se non agisce direttamente, ha un ruolo importante nello sviluppo dell’intero racconto. Perché è importante il suo ruolo? Agata è importante perché c) è il personaggio che fa emergere la diffidenza degli adulti nei confronti degli animali Si NO
si
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2023_05_SNV_A
binaria
si
no
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IL GRAN VIAGGIO DI AGATA Faceva un caldo micidiale e sul binario regnava il caos. Bambini esaltati correvano da tutte le parti e la mamma mi salutava piangendo come se non dovesse vedermi più per molti anni. In realtà la gita di classe sarebbe durata solo una settimana. Una settimana a Ulm con la maestra, la signora Salici, e il signor Holm, il professore di educazione fisica. Ulm era una città da qualche parte in basso a sinistra… Finalmente è arrivato il treno. Io volevo assolutamente mettermi nello scompartimento con Richard, Bernard e Tom, Susanne e Christiana. Era tutto un gran spintonare e sgomitare. Tom avanzava a fatica dal fondo dello stretto corridoio, aveva una pancia più sporgente del solito. Bernard gli stava dietro. Io e Richard arrivavamo dalla parte opposta, Susanne e Christiana si erano piantate davanti a uno scompartimento vuoto e tenevano i posti. Abbiamo buttato dentro gli zaini e ci siamo affacciati al finestrino a salutare i nostri genitori. Il capostazione ha fischiato e il treno è partito, poi ha fatto una curva e sono spariti tutti. Lo scompartimento era davvero super. Abbiamo tirato in avanti i sedili formando un unico grande letto e ci siamo messi comodi, ma quando Christiana ha posato lo sguardo sulla pancia di Tom ha lanciato un urlo. La pancia di Tom si muoveva, qualcosa si spostava sotto la sua camicia. Tom ha alzato la stoffa. Sulla pancia cicciottella di Tom una tartarughina si muoveva sulle sue buffe zampette. Questa è Agata ha detto Tom. Il patatrac è successo il quarto giorno. Cari bambini, ha iniziato la maestra, oggi andremo a fare un’escursione in montagna, al Blautopf, un laghetto molto lontano dall’ostello, con un’acqua tutta blu. Christiana ha domandato quanto fosse lontano, e il professor Holm ha risposto beh, c’è da fare una camminata di quindici chilometri. La signora Salici ha sorriso al professore, che l’ha ricambiata con i suoi dentoni bianchi da sportivo. Quindici chilometri, ha pigolato Susanne. Andata e ritorno sono trenta, ha infierito Christiana. Quei due sono pazzi, ha bisbigliato Richard. Non sono pazzi nemmeno un po’, ha commentato Susanne, sono cotti e siamo fortunati che non ci facciano camminare per cento chilometri, perché agli innamorati non importa niente di niente. Bernard ha chiesto a Susanne come faceva a sapere che erano innamorati. Susanne lo ha guardato come se fosse la persona più stupida del mondo. Le donne certe cose le sentono, ha bisbigliato. Quando due persone sono innamorate, c’è una vibrazione speciale nell’aria. Io non avverto nessuna vibrazione, ha confidato Bernard a Susanne. Aspetta e vedrai. Cinque ore più tardi Tom era seduto su un tronco d’albero in riva a quello stupido laghetto, che non era per niente azzurro, e piagnucolava che aveva le vesciche ai piedi. Aveva posato accanto a sé lo zaino con dentro Agata. Era rosso per la fatica e sudava da matti. A me la camminata era piaciuta. C’eravamo raccontati barzellette e avevamo cantato. Ogni tanto osservavamo la signora Salici e il signor Holm per non perderci qualche eventuale vibrazione. Arrivati al Blautopf la signora Salici naturalmente era estasiata, Susanne sosteneva che avrebbe trovato esaltante pure un mucchio di letame, tanto era cotta. Poi, è successo. Tom si è alzato sul tronco e mentre saltellava da una vescica all’altra, inavvertitamente ha urtato lo zaino, che ha fatto splash ed è finito nel laghetto. Con Agata dentro. Christiana ha lanciato un grido. Tom si è messo a frignare, Agata annega, lui non sapeva nuotare e nemmeno Agata, perché era una tartaruga di terra. La maestra ha domandato, quale tartaruga? Poi c’è stato un secondo splash, Bernard si era tuffato al salvataggio dello zaino. Il terzo splash era di Susanne, lanciata dietro Bernard. Il quarto della signora Salici, per seguire i suoi due alunni. Ci siamo messi tutti a strillare come pazzi, correndo sulla riva. Era uno spettacolo vedere loro tre nuotare in mezzo al laghetto. Bernard aveva recuperato lo zaino e lo teneva alto sopra la testa, Susanne aveva afferrato Bernard con una vera presa da salvataggio e lo trascinava a riva. Richard li ha aiutati a uscire dall’acqua. La maestra avrebbe anche potuto rimanere là, tanto l’acqua le arrivava solo fino al seno. Quando tutti ormai erano usciti dall’acqua, il signor Holm è arrivato di corsa. La signora Salici si è gettata tra le sue braccia, come in un film d’amore, spruzzando gocce d’acqua in tutte le direzioni. Poi il signor Holm l’ha baciata sul serio, mentre diceva Giovanna, amore mio, mia amata! Tom ha tirato fuori dallo zaino Agata, che si era solo un po’ bagnata, se l’è messa davanti al viso e le ha sussurrato Agata, mio unico grande amore, poi l’ha baciata sul guscio. Tutti si sono sbellicati dal ridere. Grazie al cielo la maestra e il signor Holm non si sono arrabbiati con Tom per via di Agata. La cuoca dell’ostello ha preparato un piattino di insalata verde apposta per lei. Dopo cena ho portato Agata in camera. Le ho accarezzato il guscio e lei ha agitato le zampette. Mi sono affacciato alla finestra e sul prato di sotto ho visto Bernard seduto accanto a Susanne, che si tenevano per mano. Quando lei gli ha dato un bacio sulla guancia, ho capito perché quel pomeriggio si era tuffata dietro a lui. L’aria era piena di vibrazioni. (Tratto e adattato da: Steinhöfel A., traduzione di Petrelli A., Dirk e io, BEISLER editore, 2017, Roma)
A13. Questo testo, per come è scritto, presenta caratteristiche particolari. Indica quali sono caratteristiche di questo testo e quali no. Metti una crocetta per ogni riga. a) La narrazione viene interrotta da ricordi di fatti accaduti molto tempo prima SI NO b) In più punti del testo le situazioni descritte sono buffe SI NO c) Il racconto sviluppa due storie: una realistica e una fantastica SI NO d) I dialoghi tra i personaggi non sono segnalati dalla punteggiatura tipica del discorso diretto SI NO
no
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2023_05_SNV_A
binaria
si
no
null
Il primo giorno del mese di aprile ne succedono davvero di tutti i colori: può comparire il sale nella zuccheriera o potreste trovare delle monete sul pavimento… ma è impossibile raccoglierle perché sono incollate… v 1 ……… Ma come è nata questa curiosa tradizione? Per capire come è nata la tradizione di fare gli scherzi nel primo giorno di aprile dobbiamo tornare indietro con la macchina del tempo di almeno cinque secoli e spostarci in Francia. Fu qui che, intorno alla fine de l XVI secolo, si contestò la decisione di papa Gregorio XIII il quale aveva cambiato il calendario, adottandone uno nuovo. Il calendario precedente prevedeva che il nuovo anno venisse festeggiato tra il 25 marzo e il 1° aprile, giorno, quest’ultimo, dedicato a banchetti, brindisi e scambi di doni. Con l’avvento del nuovo calendario, il Capodanno fu spostato al primo di gennaio. Come spesso succede davanti alle novità, non tutti accolsero la notizia con entusiasmo e negli anni successivi c’era ancora chi si ostinava a festeggi are Capodanno il 1° aprile. Fu così che nacque il “pesce d’aprile”: le “teste dure” diventarono bersaglio di burle e scherzi bonari e furono additati da tutti come sciocchi di aprile. La tradizione dalla Francia si diffuse in tutti i Paesi in cui fu adottato il nuovo calendario, chiamato “gregoriano”. v 2 ……… Che cosa c’entrano i pesci? Anche per questo c’è una spiegazione ed è che i pesci abboccano facilmente all’amo, come le vittime delle burle “abboccano” all’inganno. Va detto però che, a volte, è veramente difficile non cascarci, anche perché la fantasia non ha limiti e gli scherzi nemmeno... possono passare dalle aule di scuola ai parco-giochi, dalla televisione ai siti web. Due anni fa, per esempio, un sito di notizie sul calcio riferì che un famosissimo giocatore dell’FC Barcelona aveva acce ttato un contratto da 500 milioni di euro per passare al Real Madrid, la squadra rivale, per cinque anni. Nessuno fece caso al fatto che l’articolo era firmato “Lirpa Loof” (Fool April, pesce d’aprile in inglese, scritto al contra rio) e tra i tifosi si scatenò il panico. Qualche anno prima, invece, Patrick Moore, famoso astronomo e conduttore radiofonico inglese, annunciò che un eccezionale allineamento di Plutone e Giove, previsto per le 9 e 47 della mattina del primo aprile, avrebbe annullato gli effetti della gravità terrestre e tu tti gli abitanti del pianeta avrebbero iniziato a fluttuare come gli astronauti nello spazio! Alcuni anni fa un sito inglese presentò la corsa dei cavallucci marini e una compagnia aerea pubblicizzò un aereo che sbatte le ali… Tutto falso!!! Nel 2008 un presentatore della tv inglese BBC2 mostrò un video su una nuova specie di pinguini: i pinguini volanti! Gli animali, dopo una corsa sul ghiaccio, prendevano il volo e si alzavano in cielo ad ali spiegate. Il filmato lasciò tutti a bocca aperta: mai nessuno prima di allora aveva visto i pinguini volare. E non a caso! Il video infatti era una bufala per il primo di aprile. Nei giorni successivi, in un altro video, spiegarono il trucco: i pinguini volanti non erano veri, ma disegnati copiando quelli di alcune riprese girate in precedenza. In altre parole la corsa dei pinguini era vera ma il volo era stato aggiunto in seguito.
B6. Nel secondo paragrafo si afferma che “a volte, è veramente difficile non cascarci”. In base al testo e agli esempi che riporta, indica che cosa rende convincenti le false notizie diffuse il 1° di aprile. a) Il fatto che riguardino gli ambiti più vari dove non te le aspetti Rende convincenti - Non rende convincenti
rende convincenti
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2023_05_SNV_B
binaria
rende convincenti
non rende convincenti
null
Il primo giorno del mese di aprile ne succedono davvero di tutti i colori: può comparire il sale nella zuccheriera o potreste trovare delle monete sul pavimento… ma è impossibile raccoglierle perché sono incollate… v 1 ……… Ma come è nata questa curiosa tradizione? Per capire come è nata la tradizione di fare gli scherzi nel primo giorno di aprile dobbiamo tornare indietro con la macchina del tempo di almeno cinque secoli e spostarci in Francia. Fu qui che, intorno alla fine de l XVI secolo, si contestò la decisione di papa Gregorio XIII il quale aveva cambiato il calendario, adottandone uno nuovo. Il calendario precedente prevedeva che il nuovo anno venisse festeggiato tra il 25 marzo e il 1° aprile, giorno, quest’ultimo, dedicato a banchetti, brindisi e scambi di doni. Con l’avvento del nuovo calendario, il Capodanno fu spostato al primo di gennaio. Come spesso succede davanti alle novità, non tutti accolsero la notizia con entusiasmo e negli anni successivi c’era ancora chi si ostinava a festeggi are Capodanno il 1° aprile. Fu così che nacque il “pesce d’aprile”: le “teste dure” diventarono bersaglio di burle e scherzi bonari e furono additati da tutti come sciocchi di aprile. La tradizione dalla Francia si diffuse in tutti i Paesi in cui fu adottato il nuovo calendario, chiamato “gregoriano”. v 2 ……… Che cosa c’entrano i pesci? Anche per questo c’è una spiegazione ed è che i pesci abboccano facilmente all’amo, come le vittime delle burle “abboccano” all’inganno. Va detto però che, a volte, è veramente difficile non cascarci, anche perché la fantasia non ha limiti e gli scherzi nemmeno... possono passare dalle aule di scuola ai parco-giochi, dalla televisione ai siti web. Due anni fa, per esempio, un sito di notizie sul calcio riferì che un famosissimo giocatore dell’FC Barcelona aveva acce ttato un contratto da 500 milioni di euro per passare al Real Madrid, la squadra rivale, per cinque anni. Nessuno fece caso al fatto che l’articolo era firmato “Lirpa Loof” (Fool April, pesce d’aprile in inglese, scritto al contra rio) e tra i tifosi si scatenò il panico. Qualche anno prima, invece, Patrick Moore, famoso astronomo e conduttore radiofonico inglese, annunciò che un eccezionale allineamento di Plutone e Giove, previsto per le 9 e 47 della mattina del primo aprile, avrebbe annullato gli effetti della gravità terrestre e tu tti gli abitanti del pianeta avrebbero iniziato a fluttuare come gli astronauti nello spazio! Alcuni anni fa un sito inglese presentò la corsa dei cavallucci marini e una compagnia aerea pubblicizzò un aereo che sbatte le ali… Tutto falso!!! Nel 2008 un presentatore della tv inglese BBC2 mostrò un video su una nuova specie di pinguini: i pinguini volanti! Gli animali, dopo una corsa sul ghiaccio, prendevano il volo e si alzavano in cielo ad ali spiegate. Il filmato lasciò tutti a bocca aperta: mai nessuno prima di allora aveva visto i pinguini volare. E non a caso! Il video infatti era una bufala per il primo di aprile. Nei giorni successivi, in un altro video, spiegarono il trucco: i pinguini volanti non erano veri, ma disegnati copiando quelli di alcune riprese girate in precedenza. In altre parole la corsa dei pinguini era vera ma il volo era stato aggiunto in seguito.
B6. Nel secondo paragrafo si afferma che “a volte, è veramente difficile non cascarci”. In base al testo e agli esempi che riporta, indica che cosa rende convincenti le false notizie diffuse il 1° di aprile. b) Il fatto che siano divertenti Rende convincenti - Non rende convincenti
non rende convincenti
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2023_05_SNV_B
binaria
rende convincenti
non rende convincenti
null
Il primo giorno del mese di aprile ne succedono davvero di tutti i colori: può comparire il sale nella zuccheriera o potreste trovare delle monete sul pavimento… ma è impossibile raccoglierle perché sono incollate… v 1 ……… Ma come è nata questa curiosa tradizione? Per capire come è nata la tradizione di fare gli scherzi nel primo giorno di aprile dobbiamo tornare indietro con la macchina del tempo di almeno cinque secoli e spostarci in Francia. Fu qui che, intorno alla fine de l XVI secolo, si contestò la decisione di papa Gregorio XIII il quale aveva cambiato il calendario, adottandone uno nuovo. Il calendario precedente prevedeva che il nuovo anno venisse festeggiato tra il 25 marzo e il 1° aprile, giorno, quest’ultimo, dedicato a banchetti, brindisi e scambi di doni. Con l’avvento del nuovo calendario, il Capodanno fu spostato al primo di gennaio. Come spesso succede davanti alle novità, non tutti accolsero la notizia con entusiasmo e negli anni successivi c’era ancora chi si ostinava a festeggi are Capodanno il 1° aprile. Fu così che nacque il “pesce d’aprile”: le “teste dure” diventarono bersaglio di burle e scherzi bonari e furono additati da tutti come sciocchi di aprile. La tradizione dalla Francia si diffuse in tutti i Paesi in cui fu adottato il nuovo calendario, chiamato “gregoriano”. v 2 ……… Che cosa c’entrano i pesci? Anche per questo c’è una spiegazione ed è che i pesci abboccano facilmente all’amo, come le vittime delle burle “abboccano” all’inganno. Va detto però che, a volte, è veramente difficile non cascarci, anche perché la fantasia non ha limiti e gli scherzi nemmeno... possono passare dalle aule di scuola ai parco-giochi, dalla televisione ai siti web. Due anni fa, per esempio, un sito di notizie sul calcio riferì che un famosissimo giocatore dell’FC Barcelona aveva acce ttato un contratto da 500 milioni di euro per passare al Real Madrid, la squadra rivale, per cinque anni. Nessuno fece caso al fatto che l’articolo era firmato “Lirpa Loof” (Fool April, pesce d’aprile in inglese, scritto al contra rio) e tra i tifosi si scatenò il panico. Qualche anno prima, invece, Patrick Moore, famoso astronomo e conduttore radiofonico inglese, annunciò che un eccezionale allineamento di Plutone e Giove, previsto per le 9 e 47 della mattina del primo aprile, avrebbe annullato gli effetti della gravità terrestre e tu tti gli abitanti del pianeta avrebbero iniziato a fluttuare come gli astronauti nello spazio! Alcuni anni fa un sito inglese presentò la corsa dei cavallucci marini e una compagnia aerea pubblicizzò un aereo che sbatte le ali… Tutto falso!!! Nel 2008 un presentatore della tv inglese BBC2 mostrò un video su una nuova specie di pinguini: i pinguini volanti! Gli animali, dopo una corsa sul ghiaccio, prendevano il volo e si alzavano in cielo ad ali spiegate. Il filmato lasciò tutti a bocca aperta: mai nessuno prima di allora aveva visto i pinguini volare. E non a caso! Il video infatti era una bufala per il primo di aprile. Nei giorni successivi, in un altro video, spiegarono il trucco: i pinguini volanti non erano veri, ma disegnati copiando quelli di alcune riprese girate in precedenza. In altre parole la corsa dei pinguini era vera ma il volo era stato aggiunto in seguito.
B6. Nel secondo paragrafo si afferma che “a volte, è veramente difficile non cascarci”. In base al testo e agli esempi che riporta, indica che cosa rende convincenti le false notizie diffuse il 1° di aprile. c) Il fatto che siano date da fonti che normalmente dicono cose vere Rende convincenti - Non rende convincenti
rende convincenti
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2023_05_SNV_B
binaria
rende convincenti
non rende convincenti
null
AGOSTO 1963 Faceva un gran caldo, ma di colpo fui attraversato da un brivido che mi gelò il sudore nella maglietta, perché la prima cosa che vidi, quando arrivammo, fu la macchina dei carabinieri. Era in mezzo al cortile e quasi ci sbattei contro: ero lanciatissimo sulla mia bici e per evitarla andai addosso al mio amico Francesco, che pedalava di fianco a me. Frenammo e ci bloccammo lì, ansimanti. — Ohi ohi! — disse lui. lo non ebbi la forza di fiatare. Il cuore mi galoppava a cento all'ora, e mica per la corsa in bicicletta. Era che da una settimana la sognavo tutte le notti, ‘sta cosa: che venivano, mi prendevano e mi sbattevano in prigione, in una cella nera e umida. — Dai, — diceva Francesco, l’unico a cui raccontavo tutto — sei piccolo, mica ti possono arrestare... — Sì che possono, rispondevo io... La porta di casa si aprì e uscì in cortile la mamma. — Ah, sei qua, — disse. — Allora, vi siete divertiti? Avevo dormito a casa del mio amico, perché la sera prima aveva festeggiato il suo compleanno. Se la mamma mi parlava senza strapparsi i capelli o lanciarmisi contro per strangolarmi, voleva dire che forse i carabinieri non erano venuti per me. — Cosa è successo? — Stanotte ci hanno rubato dei polli. — Ma c’era bisogno di chiamare i carabinieri, per due polli? — Non sono due, sono dieci; e poi chi dovevamo chiamare, il parroco? — disse la mamma. — È da mezz'ora che parlano col babbo e col nonno, e mi sa che non si sono ancora capiti. Due carabinieri stavano discutendo ad alta voce con mio padre, che scuoteva la testa e rideva in modo isterico. — Questa poi, — diceva, — Le supera tutte! Ma state scherzando o fate sul serio? Mio nonno abbandonò la scena, partì camminando verso casa spedito, quasi correndo. — Ehi... — dissi allora al babbo — Ma cosa succede? — Succede che questi qui, invece di cercare i nostri polli, ci vogliono portare via anche quelli che i ladri non hanno rubato! — Non vogliamo portare via niente, — disse uno dei militari. — Abbiamo soltanto detto che la descrizione coincide: ai vostri vicini hanno rubato dodici galline bianche, e qui ci sono dodici galline bianche. — Il babbo diventò ancora più paonazzo. — Sentite un po’ questa, bambini! Sembra una barzelletta! — Signore, non si permetta... — disse il carabiniere che fino ad allora aveva taciuto, ma si interruppe subito perché stava arrivando il nonno di gran carriera con la doppietta in mano. Il nonno si piazzò davanti al pollaio e disse — Chi tocca le galline, lo impallino. I due in divisa parlottarono tra loro e poi se ne andarono zitti zitti. — Andiamo a fare un giro? — chiesi a Francesco. Pedalammo fino all’argine del fiume, posammo le bici e ci sedemmo nell'erba a guardare l’acqua che scorreva verde e lenta. — Ero sicuro che fossero venuti per me, — dissi - Un omicidio è sempre un omicidio, altro che furto di polli! Insomma, era successo che una settimana prima io e Paolino, un bambino che aveva un paio d'anni meno di me, eravamo andati, di sera, a prenderci un cocomero da un vicino. Ne aveva così tanti! Arrivati sul posto c'eravamo divisi i compiti: io oltrepassavo la recinzione, lui mi aspettava dall'altra parte, attento che non venisse nessuno. Superata la recinzione, ero saltato giù nel campo, avevo abituato gli occhi all’oscurità e mi ero messo, carponi, a cercare la preda. A un certo punto l’avevo trovata: era il cocomero più grosso che avessi mai visto; tenendolo in mano non mi sarei potuto arrampicare sulla barriera. Allora avevo detto a Paolino, che non vedevo per via delle foglie: — Te lo butto, poi scavalco e ce la filiamo. — Va bene! — aveva risposto lui. Mi ero messo il cocomero sulla testa con le mani appoggiate sotto, poi, con una bella spinta la refurtiva era volata oltre la recinzione. E avevo sentito un rumore sordo che non mi era piaciuto affatto. — Tutto bene? — avevo chiesto. Nessuna risposta. — Ehi, Paolino, ci sei? Niente. Avevo scavalcato con un gran brutto presentimento, e mi si era presentata una scena agghiacciante. Il mio complice era steso per terra e intorno aveva un sacco di poltiglia rossa. Il cocomero doveva averlo preso in pieno, e secondo me in quella pozza si mescolavano cocomero e contenuto della testa di Paolino in quantità più o meno uguali. In preda al panico ero saltato sulla bicicletta e via. Ora, devo dire la verità, non è che friggessi dal rimorso o dal senso di colpa: se Paolino c'era rimasto secco col cocomero era colpa sua che doveva essersi distratto. Però avevo il terrore che qualcuno scoprisse che ero stato io. Ecco perché vedere i carabinieri mi faceva venire i sudori freddi. Quando tornai a casa vidi due cose. La prima fu il nonno che, ancora con il fucile in mano, se ne stava di sentinella al pollaio. La seconda fu Paolino che transitava in bicicletta sulla strada. — Ehi! — gli gridai, stupito e decisamente sollevato. Lui venne da me e mi disse: — M'hai fatto male con quel cocomero, sai? — Ma non sei tu che al campetto vuoi sempre giocare in porta? Neanche un cocomero sai parare! — Riproviamo a prenderne uno, stasera? — mi chiese. — Neanche per sogno, — e gli girai le spalle. (Tratto e adattato da: E. Baldini, L’uomo nero e la bicicletta blu, Torino, Einaudi Stile libero, 2011)
A5. Dopo aver letto la prima parte del testo (da riga 1 a riga 14) puoi anticipare che il protagonista aveva paura di essere punito per qualcosa che aveva fatto. Quali indizi nella prima parte del testo autorizzano a ipotizzarlo? Autorizza cioè ti porta a pensare che avesse paura di essere punito NON Autorizza cioè non ti porta a pensare che avesse paura di essere punito a) Fui attraversato da un brivido che mi gelò il sudore nella maglietta
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2019_05_SNV_A
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AGOSTO 1963 Faceva un gran caldo, ma di colpo fui attraversato da un brivido che mi gelò il sudore nella maglietta, perché la prima cosa che vidi, quando arrivammo, fu la macchina dei carabinieri. Era in mezzo al cortile e quasi ci sbattei contro: ero lanciatissimo sulla mia bici e per evitarla andai addosso al mio amico Francesco, che pedalava di fianco a me. Frenammo e ci bloccammo lì, ansimanti. — Ohi ohi! — disse lui. lo non ebbi la forza di fiatare. Il cuore mi galoppava a cento all'ora, e mica per la corsa in bicicletta. Era che da una settimana la sognavo tutte le notti, ‘sta cosa: che venivano, mi prendevano e mi sbattevano in prigione, in una cella nera e umida. — Dai, — diceva Francesco, l’unico a cui raccontavo tutto — sei piccolo, mica ti possono arrestare... — Sì che possono, rispondevo io... La porta di casa si aprì e uscì in cortile la mamma. — Ah, sei qua, — disse. — Allora, vi siete divertiti? Avevo dormito a casa del mio amico, perché la sera prima aveva festeggiato il suo compleanno. Se la mamma mi parlava senza strapparsi i capelli o lanciarmisi contro per strangolarmi, voleva dire che forse i carabinieri non erano venuti per me. — Cosa è successo? — Stanotte ci hanno rubato dei polli. — Ma c’era bisogno di chiamare i carabinieri, per due polli? — Non sono due, sono dieci; e poi chi dovevamo chiamare, il parroco? — disse la mamma. — È da mezz'ora che parlano col babbo e col nonno, e mi sa che non si sono ancora capiti. Due carabinieri stavano discutendo ad alta voce con mio padre, che scuoteva la testa e rideva in modo isterico. — Questa poi, — diceva, — Le supera tutte! Ma state scherzando o fate sul serio? Mio nonno abbandonò la scena, partì camminando verso casa spedito, quasi correndo. — Ehi... — dissi allora al babbo — Ma cosa succede? — Succede che questi qui, invece di cercare i nostri polli, ci vogliono portare via anche quelli che i ladri non hanno rubato! — Non vogliamo portare via niente, — disse uno dei militari. — Abbiamo soltanto detto che la descrizione coincide: ai vostri vicini hanno rubato dodici galline bianche, e qui ci sono dodici galline bianche. — Il babbo diventò ancora più paonazzo. — Sentite un po’ questa, bambini! Sembra una barzelletta! — Signore, non si permetta... — disse il carabiniere che fino ad allora aveva taciuto, ma si interruppe subito perché stava arrivando il nonno di gran carriera con la doppietta in mano. Il nonno si piazzò davanti al pollaio e disse — Chi tocca le galline, lo impallino. I due in divisa parlottarono tra loro e poi se ne andarono zitti zitti. — Andiamo a fare un giro? — chiesi a Francesco. Pedalammo fino all’argine del fiume, posammo le bici e ci sedemmo nell'erba a guardare l’acqua che scorreva verde e lenta. — Ero sicuro che fossero venuti per me, — dissi - Un omicidio è sempre un omicidio, altro che furto di polli! Insomma, era successo che una settimana prima io e Paolino, un bambino che aveva un paio d'anni meno di me, eravamo andati, di sera, a prenderci un cocomero da un vicino. Ne aveva così tanti! Arrivati sul posto c'eravamo divisi i compiti: io oltrepassavo la recinzione, lui mi aspettava dall'altra parte, attento che non venisse nessuno. Superata la recinzione, ero saltato giù nel campo, avevo abituato gli occhi all’oscurità e mi ero messo, carponi, a cercare la preda. A un certo punto l’avevo trovata: era il cocomero più grosso che avessi mai visto; tenendolo in mano non mi sarei potuto arrampicare sulla barriera. Allora avevo detto a Paolino, che non vedevo per via delle foglie: — Te lo butto, poi scavalco e ce la filiamo. — Va bene! — aveva risposto lui. Mi ero messo il cocomero sulla testa con le mani appoggiate sotto, poi, con una bella spinta la refurtiva era volata oltre la recinzione. E avevo sentito un rumore sordo che non mi era piaciuto affatto. — Tutto bene? — avevo chiesto. Nessuna risposta. — Ehi, Paolino, ci sei? Niente. Avevo scavalcato con un gran brutto presentimento, e mi si era presentata una scena agghiacciante. Il mio complice era steso per terra e intorno aveva un sacco di poltiglia rossa. Il cocomero doveva averlo preso in pieno, e secondo me in quella pozza si mescolavano cocomero e contenuto della testa di Paolino in quantità più o meno uguali. In preda al panico ero saltato sulla bicicletta e via. Ora, devo dire la verità, non è che friggessi dal rimorso o dal senso di colpa: se Paolino c'era rimasto secco col cocomero era colpa sua che doveva essersi distratto. Però avevo il terrore che qualcuno scoprisse che ero stato io. Ecco perché vedere i carabinieri mi faceva venire i sudori freddi. Quando tornai a casa vidi due cose. La prima fu il nonno che, ancora con il fucile in mano, se ne stava di sentinella al pollaio. La seconda fu Paolino che transitava in bicicletta sulla strada. — Ehi! — gli gridai, stupito e decisamente sollevato. Lui venne da me e mi disse: — M'hai fatto male con quel cocomero, sai? — Ma non sei tu che al campetto vuoi sempre giocare in porta? Neanche un cocomero sai parare! — Riproviamo a prenderne uno, stasera? — mi chiese. — Neanche per sogno, — e gli girai le spalle. (Tratto e adattato da: E. Baldini, L’uomo nero e la bicicletta blu, Torino, Einaudi Stile libero, 2011)
A5. Dopo aver letto la prima parte del testo (da riga 1 a riga 14) puoi anticipare che il protagonista aveva paura di essere punito per qualcosa che aveva fatto. Quali indizi nella prima parte del testo autorizzano a ipotizzarlo? Autorizza cioè ti porta a pensare che avesse paura di essere punito NON Autorizza cioè non ti porta a pensare che avesse paura di essere punito b) Il protagonista racconta a Francesco quello che è successo con Paolino (riga 12)
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2019_05_SNV_A
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L’anello di re Salomone - premessa “Ciò che seminai nell'ira crebbe in una notte rigogliosamente ma la pioggia lo distrusse. Ciò che seminai con amore germinò lentamente maturò tardi ma in benedetta abbondanza”. PETER ROSEGGER Per scrivere sugli animali bisogna essere ispirati da un affetto caldo e genuino per le creature viventi, e penso che a me questo requisito verrà senz'altro riconosciuto. Ma ho voluto citare i bei versi di Peter Rosegger, perché questo libro è scaturito non solo dal mio grande amore per gli “animali”, ma anche dalla mia ira contro i “libri” che trattano di animali. E devo riconoscere che se mai nella mia vita ho agito sotto l'impulso dell'ira, è stato proprio nella stesura di queste storie di animali. Ma di che cosa mi adiravo? Delle molte storie di animali, incredibilmente false e cattive, che ci vengono offerte oggi in tutte le librerie; dei molti pennaioli che pretendono di parlare degli animali senza saperne un bel nulla. Chi scrive che le api urlano e spalancano le fauci, o che i lucci, lottando tra loro, si prendono per la gola, dimostra di non possedere neppur la più pallida idea dei caratteri di quegli animali, che pretende invece di avere direttamente e amorevolmente osservato. Se per compilare un libro sugli animali bastassero alcune informazioni delle esistenti società di allevatori, persone come Heck senior, Bengt Berg, Paul Eipper, Ernest Seton Thompson, o Wäscha Kwonnesin, che hanno dedicato tutta la vita alle ricerche sugli animali, sarebbero da considerarsi sciocche. Non si possono sottovalutare gli innumerevoli errori che queste irresponsabili storie di animali diffondono fra i lettori, e soprattutto tra i giovani, vivamente interessati a questo argomento. E non si obietti che queste falsificazioni sono una legittima libertà della rappresentazione artistica. Certo, i poeti hanno diritto di “stilizzare” anche gli animali, come qualsiasi altro oggetto, secondo le necessità del processo artistico: i lupi e le pantere di Rudyard Kipling, il suo impareggiabile mungo Rikhi-tikkitavi parlano come gli uomini, e l'ape Maja di Waldemar Bonsels può esibire un comportamento non meno corretto e gentile del loro. Ma queste stilizzazioni sono permesse solo a chi conosce veramente l'animale. Anche gli artisti figurativi non sono tenuti a rappresentare le cose con precisione scientifica, ma guai a colui che non conosce l'oggetto che pretende di rappresentare, e che si serve della stilizzazione solo per mascherare la propria ignoranza! Io sono uno scienziato, non un artista, e quindi non mi permetto nessuna libertà e nessuna “stilizzazione”. Inoltre ritengo che queste libertà non siano affatto necessarie, e che sia molto meglio attenersi, come nei veri e propri lavori scientifici, semplicemente ai fatti, se si vuole dischiudere al lettore la bellezza del mondo animale. Le verità dell'universo organico si impongono infatti sempre più al nostro amore e alla nostra ammirazione e divengono sempre più belle quanto più profondamente si penetra in ogni loro peculiarità, ed è proprio insensato credere che l'oggettività della ricerca, il sapere, la conoscenza dei fenomeni naturali, possano far diminuire la gioia procurataci dalle meraviglie della natura. Anzi, quanto più l'uomo impara a conoscere la natura, tanto più viene preso profondamente e tenacemente dalla sua viva realtà. E in ogni buon biologo che sia stato chiamato alla sua professione dal godimento interiore che gli procurava la bellezza delle creature viventi, tutte le conoscenze acquistate attraverso la professione non hanno fatto che approfondire il godimento e l'amore della natura e del proprio lavoro. Per il campo di indagine cui ho dedicato la mia vita, cioè lo studio del comportamento animale, ciò vale ancor più che per ogni altro campo di ricerca nel mondo vivente: questo studio esige una dimestichezza così immediata con il mondo animale, ma anche una pazienza così disumana da parte dell'osservatore, che non basterà a sostenerlo il solo interesse teorico per gli animali, se mancherà l'amore che nel comportamento dell'uomo e dell'animale riesce a cogliere e constatare quell'affinità di cui aveva già da prima un'intuizione. Oso dunque sperare che questo libro non mi venga distrutto dalla pioggia: ammetto infatti io stesso di averlo concepito nell'ira, ma quest'ira è frutto a sua volta del mio grande amore per gli animali! Altenberg, estate 1949. KONRAD LORENZ
D4. L'autore espone alcuni motivi che lo hanno spinto a scrivere il libro "L'anello di re Salomone". ndica se i motivi elencati corrispondono o no al suo pensiero. a) e irritato da coloro che scrivono di animali pur non conoscendoli
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2019_08_SIM_D
binaria
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L’anello di re Salomone - premessa “Ciò che seminai nell'ira crebbe in una notte rigogliosamente ma la pioggia lo distrusse. Ciò che seminai con amore germinò lentamente maturò tardi ma in benedetta abbondanza”. PETER ROSEGGER Per scrivere sugli animali bisogna essere ispirati da un affetto caldo e genuino per le creature viventi, e penso che a me questo requisito verrà senz'altro riconosciuto. Ma ho voluto citare i bei versi di Peter Rosegger, perché questo libro è scaturito non solo dal mio grande amore per gli “animali”, ma anche dalla mia ira contro i “libri” che trattano di animali. E devo riconoscere che se mai nella mia vita ho agito sotto l'impulso dell'ira, è stato proprio nella stesura di queste storie di animali. Ma di che cosa mi adiravo? Delle molte storie di animali, incredibilmente false e cattive, che ci vengono offerte oggi in tutte le librerie; dei molti pennaioli che pretendono di parlare degli animali senza saperne un bel nulla. Chi scrive che le api urlano e spalancano le fauci, o che i lucci, lottando tra loro, si prendono per la gola, dimostra di non possedere neppur la più pallida idea dei caratteri di quegli animali, che pretende invece di avere direttamente e amorevolmente osservato. Se per compilare un libro sugli animali bastassero alcune informazioni delle esistenti società di allevatori, persone come Heck senior, Bengt Berg, Paul Eipper, Ernest Seton Thompson, o Wäscha Kwonnesin, che hanno dedicato tutta la vita alle ricerche sugli animali, sarebbero da considerarsi sciocche. Non si possono sottovalutare gli innumerevoli errori che queste irresponsabili storie di animali diffondono fra i lettori, e soprattutto tra i giovani, vivamente interessati a questo argomento. E non si obietti che queste falsificazioni sono una legittima libertà della rappresentazione artistica. Certo, i poeti hanno diritto di “stilizzare” anche gli animali, come qualsiasi altro oggetto, secondo le necessità del processo artistico: i lupi e le pantere di Rudyard Kipling, il suo impareggiabile mungo Rikhi-tikkitavi parlano come gli uomini, e l'ape Maja di Waldemar Bonsels può esibire un comportamento non meno corretto e gentile del loro. Ma queste stilizzazioni sono permesse solo a chi conosce veramente l'animale. Anche gli artisti figurativi non sono tenuti a rappresentare le cose con precisione scientifica, ma guai a colui che non conosce l'oggetto che pretende di rappresentare, e che si serve della stilizzazione solo per mascherare la propria ignoranza! Io sono uno scienziato, non un artista, e quindi non mi permetto nessuna libertà e nessuna “stilizzazione”. Inoltre ritengo che queste libertà non siano affatto necessarie, e che sia molto meglio attenersi, come nei veri e propri lavori scientifici, semplicemente ai fatti, se si vuole dischiudere al lettore la bellezza del mondo animale. Le verità dell'universo organico si impongono infatti sempre più al nostro amore e alla nostra ammirazione e divengono sempre più belle quanto più profondamente si penetra in ogni loro peculiarità, ed è proprio insensato credere che l'oggettività della ricerca, il sapere, la conoscenza dei fenomeni naturali, possano far diminuire la gioia procurataci dalle meraviglie della natura. Anzi, quanto più l'uomo impara a conoscere la natura, tanto più viene preso profondamente e tenacemente dalla sua viva realtà. E in ogni buon biologo che sia stato chiamato alla sua professione dal godimento interiore che gli procurava la bellezza delle creature viventi, tutte le conoscenze acquistate attraverso la professione non hanno fatto che approfondire il godimento e l'amore della natura e del proprio lavoro. Per il campo di indagine cui ho dedicato la mia vita, cioè lo studio del comportamento animale, ciò vale ancor più che per ogni altro campo di ricerca nel mondo vivente: questo studio esige una dimestichezza così immediata con il mondo animale, ma anche una pazienza così disumana da parte dell'osservatore, che non basterà a sostenerlo il solo interesse teorico per gli animali, se mancherà l'amore che nel comportamento dell'uomo e dell'animale riesce a cogliere e constatare quell'affinità di cui aveva già da prima un'intuizione. Oso dunque sperare che questo libro non mi venga distrutto dalla pioggia: ammetto infatti io stesso di averlo concepito nell'ira, ma quest'ira è frutto a sua volta del mio grande amore per gli animali! Altenberg, estate 1949. KONRAD LORENZ
D4. L'autore espone alcuni motivi che lo hanno spinto a scrivere il libro "L'anello di re Salomone". ndica se i motivi elencati corrispondono o no al suo pensiero. b) è preoccupato per ciò che i giovani potrebbero imparare leggendo storie di animali senza fondamento
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2019_08_SIM_D
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L’anello di re Salomone - premessa “Ciò che seminai nell'ira crebbe in una notte rigogliosamente ma la pioggia lo distrusse. Ciò che seminai con amore germinò lentamente maturò tardi ma in benedetta abbondanza”. PETER ROSEGGER Per scrivere sugli animali bisogna essere ispirati da un affetto caldo e genuino per le creature viventi, e penso che a me questo requisito verrà senz'altro riconosciuto. Ma ho voluto citare i bei versi di Peter Rosegger, perché questo libro è scaturito non solo dal mio grande amore per gli “animali”, ma anche dalla mia ira contro i “libri” che trattano di animali. E devo riconoscere che se mai nella mia vita ho agito sotto l'impulso dell'ira, è stato proprio nella stesura di queste storie di animali. Ma di che cosa mi adiravo? Delle molte storie di animali, incredibilmente false e cattive, che ci vengono offerte oggi in tutte le librerie; dei molti pennaioli che pretendono di parlare degli animali senza saperne un bel nulla. Chi scrive che le api urlano e spalancano le fauci, o che i lucci, lottando tra loro, si prendono per la gola, dimostra di non possedere neppur la più pallida idea dei caratteri di quegli animali, che pretende invece di avere direttamente e amorevolmente osservato. Se per compilare un libro sugli animali bastassero alcune informazioni delle esistenti società di allevatori, persone come Heck senior, Bengt Berg, Paul Eipper, Ernest Seton Thompson, o Wäscha Kwonnesin, che hanno dedicato tutta la vita alle ricerche sugli animali, sarebbero da considerarsi sciocche. Non si possono sottovalutare gli innumerevoli errori che queste irresponsabili storie di animali diffondono fra i lettori, e soprattutto tra i giovani, vivamente interessati a questo argomento. E non si obietti che queste falsificazioni sono una legittima libertà della rappresentazione artistica. Certo, i poeti hanno diritto di “stilizzare” anche gli animali, come qualsiasi altro oggetto, secondo le necessità del processo artistico: i lupi e le pantere di Rudyard Kipling, il suo impareggiabile mungo Rikhi-tikkitavi parlano come gli uomini, e l'ape Maja di Waldemar Bonsels può esibire un comportamento non meno corretto e gentile del loro. Ma queste stilizzazioni sono permesse solo a chi conosce veramente l'animale. Anche gli artisti figurativi non sono tenuti a rappresentare le cose con precisione scientifica, ma guai a colui che non conosce l'oggetto che pretende di rappresentare, e che si serve della stilizzazione solo per mascherare la propria ignoranza! Io sono uno scienziato, non un artista, e quindi non mi permetto nessuna libertà e nessuna “stilizzazione”. Inoltre ritengo che queste libertà non siano affatto necessarie, e che sia molto meglio attenersi, come nei veri e propri lavori scientifici, semplicemente ai fatti, se si vuole dischiudere al lettore la bellezza del mondo animale. Le verità dell'universo organico si impongono infatti sempre più al nostro amore e alla nostra ammirazione e divengono sempre più belle quanto più profondamente si penetra in ogni loro peculiarità, ed è proprio insensato credere che l'oggettività della ricerca, il sapere, la conoscenza dei fenomeni naturali, possano far diminuire la gioia procurataci dalle meraviglie della natura. Anzi, quanto più l'uomo impara a conoscere la natura, tanto più viene preso profondamente e tenacemente dalla sua viva realtà. E in ogni buon biologo che sia stato chiamato alla sua professione dal godimento interiore che gli procurava la bellezza delle creature viventi, tutte le conoscenze acquistate attraverso la professione non hanno fatto che approfondire il godimento e l'amore della natura e del proprio lavoro. Per il campo di indagine cui ho dedicato la mia vita, cioè lo studio del comportamento animale, ciò vale ancor più che per ogni altro campo di ricerca nel mondo vivente: questo studio esige una dimestichezza così immediata con il mondo animale, ma anche una pazienza così disumana da parte dell'osservatore, che non basterà a sostenerlo il solo interesse teorico per gli animali, se mancherà l'amore che nel comportamento dell'uomo e dell'animale riesce a cogliere e constatare quell'affinità di cui aveva già da prima un'intuizione. Oso dunque sperare che questo libro non mi venga distrutto dalla pioggia: ammetto infatti io stesso di averlo concepito nell'ira, ma quest'ira è frutto a sua volta del mio grande amore per gli animali! Altenberg, estate 1949. KONRAD LORENZ
D4. L'autore espone alcuni motivi che lo hanno spinto a scrivere il libro "L'anello di re Salomone". ndica se i motivi elencati corrispondono o no al suo pensiero. c) è convinto che dedicare tutta la vita allo studio degli animali sia poco utile
non corrisponde
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2019_08_SIM_D
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L’anello di re Salomone - premessa “Ciò che seminai nell'ira crebbe in una notte rigogliosamente ma la pioggia lo distrusse. Ciò che seminai con amore germinò lentamente maturò tardi ma in benedetta abbondanza”. PETER ROSEGGER Per scrivere sugli animali bisogna essere ispirati da un affetto caldo e genuino per le creature viventi, e penso che a me questo requisito verrà senz'altro riconosciuto. Ma ho voluto citare i bei versi di Peter Rosegger, perché questo libro è scaturito non solo dal mio grande amore per gli “animali”, ma anche dalla mia ira contro i “libri” che trattano di animali. E devo riconoscere che se mai nella mia vita ho agito sotto l'impulso dell'ira, è stato proprio nella stesura di queste storie di animali. Ma di che cosa mi adiravo? Delle molte storie di animali, incredibilmente false e cattive, che ci vengono offerte oggi in tutte le librerie; dei molti pennaioli che pretendono di parlare degli animali senza saperne un bel nulla. Chi scrive che le api urlano e spalancano le fauci, o che i lucci, lottando tra loro, si prendono per la gola, dimostra di non possedere neppur la più pallida idea dei caratteri di quegli animali, che pretende invece di avere direttamente e amorevolmente osservato. Se per compilare un libro sugli animali bastassero alcune informazioni delle esistenti società di allevatori, persone come Heck senior, Bengt Berg, Paul Eipper, Ernest Seton Thompson, o Wäscha Kwonnesin, che hanno dedicato tutta la vita alle ricerche sugli animali, sarebbero da considerarsi sciocche. Non si possono sottovalutare gli innumerevoli errori che queste irresponsabili storie di animali diffondono fra i lettori, e soprattutto tra i giovani, vivamente interessati a questo argomento. E non si obietti che queste falsificazioni sono una legittima libertà della rappresentazione artistica. Certo, i poeti hanno diritto di “stilizzare” anche gli animali, come qualsiasi altro oggetto, secondo le necessità del processo artistico: i lupi e le pantere di Rudyard Kipling, il suo impareggiabile mungo Rikhi-tikkitavi parlano come gli uomini, e l'ape Maja di Waldemar Bonsels può esibire un comportamento non meno corretto e gentile del loro. Ma queste stilizzazioni sono permesse solo a chi conosce veramente l'animale. Anche gli artisti figurativi non sono tenuti a rappresentare le cose con precisione scientifica, ma guai a colui che non conosce l'oggetto che pretende di rappresentare, e che si serve della stilizzazione solo per mascherare la propria ignoranza! Io sono uno scienziato, non un artista, e quindi non mi permetto nessuna libertà e nessuna “stilizzazione”. Inoltre ritengo che queste libertà non siano affatto necessarie, e che sia molto meglio attenersi, come nei veri e propri lavori scientifici, semplicemente ai fatti, se si vuole dischiudere al lettore la bellezza del mondo animale. Le verità dell'universo organico si impongono infatti sempre più al nostro amore e alla nostra ammirazione e divengono sempre più belle quanto più profondamente si penetra in ogni loro peculiarità, ed è proprio insensato credere che l'oggettività della ricerca, il sapere, la conoscenza dei fenomeni naturali, possano far diminuire la gioia procurataci dalle meraviglie della natura. Anzi, quanto più l'uomo impara a conoscere la natura, tanto più viene preso profondamente e tenacemente dalla sua viva realtà. E in ogni buon biologo che sia stato chiamato alla sua professione dal godimento interiore che gli procurava la bellezza delle creature viventi, tutte le conoscenze acquistate attraverso la professione non hanno fatto che approfondire il godimento e l'amore della natura e del proprio lavoro. Per il campo di indagine cui ho dedicato la mia vita, cioè lo studio del comportamento animale, ciò vale ancor più che per ogni altro campo di ricerca nel mondo vivente: questo studio esige una dimestichezza così immediata con il mondo animale, ma anche una pazienza così disumana da parte dell'osservatore, che non basterà a sostenerlo il solo interesse teorico per gli animali, se mancherà l'amore che nel comportamento dell'uomo e dell'animale riesce a cogliere e constatare quell'affinità di cui aveva già da prima un'intuizione. Oso dunque sperare che questo libro non mi venga distrutto dalla pioggia: ammetto infatti io stesso di averlo concepito nell'ira, ma quest'ira è frutto a sua volta del mio grande amore per gli animali! Altenberg, estate 1949. KONRAD LORENZ
D4. \L'autore espone alcuni motivi che lo hanno spinto a scrivere il libro "L'anello di re Salomone". ndica se i motivi elencati corrispondono o no al suo pensiero. d) è stato ispirato dai versi di Peter Rosseger che parlano di animali
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L’anello di re Salomone - premessa “Ciò che seminai nell'ira crebbe in una notte rigogliosamente ma la pioggia lo distrusse. Ciò che seminai con amore germinò lentamente maturò tardi ma in benedetta abbondanza”. PETER ROSEGGER Per scrivere sugli animali bisogna essere ispirati da un affetto caldo e genuino per le creature viventi, e penso che a me questo requisito verrà senz'altro riconosciuto. Ma ho voluto citare i bei versi di Peter Rosegger, perché questo libro è scaturito non solo dal mio grande amore per gli “animali”, ma anche dalla mia ira contro i “libri” che trattano di animali. E devo riconoscere che se mai nella mia vita ho agito sotto l'impulso dell'ira, è stato proprio nella stesura di queste storie di animali. Ma di che cosa mi adiravo? Delle molte storie di animali, incredibilmente false e cattive, che ci vengono offerte oggi in tutte le librerie; dei molti pennaioli che pretendono di parlare degli animali senza saperne un bel nulla. Chi scrive che le api urlano e spalancano le fauci, o che i lucci, lottando tra loro, si prendono per la gola, dimostra di non possedere neppur la più pallida idea dei caratteri di quegli animali, che pretende invece di avere direttamente e amorevolmente osservato. Se per compilare un libro sugli animali bastassero alcune informazioni delle esistenti società di allevatori, persone come Heck senior, Bengt Berg, Paul Eipper, Ernest Seton Thompson, o Wäscha Kwonnesin, che hanno dedicato tutta la vita alle ricerche sugli animali, sarebbero da considerarsi sciocche. Non si possono sottovalutare gli innumerevoli errori che queste irresponsabili storie di animali diffondono fra i lettori, e soprattutto tra i giovani, vivamente interessati a questo argomento. E non si obietti che queste falsificazioni sono una legittima libertà della rappresentazione artistica. Certo, i poeti hanno diritto di “stilizzare” anche gli animali, come qualsiasi altro oggetto, secondo le necessità del processo artistico: i lupi e le pantere di Rudyard Kipling, il suo impareggiabile mungo Rikhi-tikkitavi parlano come gli uomini, e l'ape Maja di Waldemar Bonsels può esibire un comportamento non meno corretto e gentile del loro. Ma queste stilizzazioni sono permesse solo a chi conosce veramente l'animale. Anche gli artisti figurativi non sono tenuti a rappresentare le cose con precisione scientifica, ma guai a colui che non conosce l'oggetto che pretende di rappresentare, e che si serve della stilizzazione solo per mascherare la propria ignoranza! Io sono uno scienziato, non un artista, e quindi non mi permetto nessuna libertà e nessuna “stilizzazione”. Inoltre ritengo che queste libertà non siano affatto necessarie, e che sia molto meglio attenersi, come nei veri e propri lavori scientifici, semplicemente ai fatti, se si vuole dischiudere al lettore la bellezza del mondo animale. Le verità dell'universo organico si impongono infatti sempre più al nostro amore e alla nostra ammirazione e divengono sempre più belle quanto più profondamente si penetra in ogni loro peculiarità, ed è proprio insensato credere che l'oggettività della ricerca, il sapere, la conoscenza dei fenomeni naturali, possano far diminuire la gioia procurataci dalle meraviglie della natura. Anzi, quanto più l'uomo impara a conoscere la natura, tanto più viene preso profondamente e tenacemente dalla sua viva realtà. E in ogni buon biologo che sia stato chiamato alla sua professione dal godimento interiore che gli procurava la bellezza delle creature viventi, tutte le conoscenze acquistate attraverso la professione non hanno fatto che approfondire il godimento e l'amore della natura e del proprio lavoro. Per il campo di indagine cui ho dedicato la mia vita, cioè lo studio del comportamento animale, ciò vale ancor più che per ogni altro campo di ricerca nel mondo vivente: questo studio esige una dimestichezza così immediata con il mondo animale, ma anche una pazienza così disumana da parte dell'osservatore, che non basterà a sostenerlo il solo interesse teorico per gli animali, se mancherà l'amore che nel comportamento dell'uomo e dell'animale riesce a cogliere e constatare quell'affinità di cui aveva già da prima un'intuizione. Oso dunque sperare che questo libro non mi venga distrutto dalla pioggia: ammetto infatti io stesso di averlo concepito nell'ira, ma quest'ira è frutto a sua volta del mio grande amore per gli animali! Altenberg, estate 1949. KONRAD LORENZ
D4. L'autore espone alcuni motivi che lo hanno spinto a scrivere il libro "L'anello di re Salomone". ndica se i motivi elencati corrispondono o no al suo pensiero. e) è spinto da profondo amore e rispetto nei confronti degli animali che studia
corrisponde
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2019_08_SIM_D
binaria
corrisponde
non corrisponde
null
Ettore, Andromaca e il figlioletto alle Porte Scee L’autore procede a una riscrittura dell’Iliade per adattare il poema omerico a una lettura pubblica in teatro. Nel testo, a differenza di Omero, l'autore affida alla nutrice il racconto dell’episodio dell’incontro di Ettore con la moglie e il figlio sulle mura di Troia, alle porte Scee, prima del duello con Achille. […] Così disse Ettore glorioso, e poi venne verso di me. Io tenevo suo figlio in braccio, capite? E lui si avvicinò e fece per prenderlo tra le sue mani. Ma il bambino si strinse al mio petto, scoppiando a piangere, lo aveva impaurito veder il padre, lo spaventavano quelle armi di bronzo, e il pennacchio sull’elmo, lo vedeva ondeggiare, spaventoso, e così scoppiò a piangere. E mi ricordo che allora Ettore e Andromaca si guardarono e sorrisero. Poi lui si tolse l’elmo e lo posò a terra. Allora il bambino si fece prendere, e lui lo strinse tra le sue braccia. E lo baciò. E sollevandolo in alto disse: “Zeus, e voi, divinità del cielo, fate che questo mio figlio sia come me, più forte tra tutti i Troiani, e signore di Ilio. Fate che la gente, vedendolo tornare dalla battaglia, dica: “È perfino più forte di suo padre”. Fate che torni un giorno portando le spoglie insanguinate dei nemici, e fate che sua madre sia là, quel giorno, a gioire nel suo cuore”. E mentre diceva queste parole mise il figlio tra le braccia di Andromaca. E mi ricordo che lei sorrideva e piangeva, stringendosi al petto il suo bambino, piangeva e sorrideva: e guardandola Ettore ebbe pietà di lei, e la accarezzò, e le disse. “Non affliggerti troppo nel tuo cuore. Nessuno riuscirà ad uccidermi se non lo vorrà il destino; e se il destino lo vorrà, allora pensa che al destino nessun uomo, una volta che è nato, può sfuggire. Vile o coraggioso che sia. Nessuno. Ora torna a casa e rimettiti al lavoro, al fuso e al telaio, con le ancelle. Lascia che alla guerra pensino gli uomini, tutti gli uomini di Ilio, e io più di ogni altro uomo di Ilio”. Poi si chinò e riprese l’elmo da terra, l’elmo dalla chioma ondeggiante. Noi tornammo a casa. Camminando, piangeva, Andromaca, e continuava a voltarsi indietro. Quando le ancelle la videro arrivare, in tutte loro suscitò una grande tristezza. Tutte scoppiarono in pianto. Piangevano Ettore, lo piangevano nella sua casa e lo piangevano mentre ancora era vivo. Perché nessuna pensava in cuor suo che vivo sarebbe tornato dalla battaglia. (Tratto da: A. Baricco, Omero, Iliade, Milano, Feltrinelli, 2004, pp.52-53)
A4. Andromaca "sorrideva e piangeva" nello stesso tempo (espressione evidenziata nel testo), agitata da sentimenti contrastanti. Quali motivazioni, tra quelle indicate, possono spiegare rispettivamente i due comportamenti di Andromaca? a) Per il presagio della vittoria dei Greci
pianto
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2019_10_SIM_A
binaria
pianto
sorriso
non pertinente
Ettore, Andromaca e il figlioletto alle Porte Scee L’autore procede a una riscrittura dell’Iliade per adattare il poema omerico a una lettura pubblica in teatro. Nel testo, a differenza di Omero, l'autore affida alla nutrice il racconto dell’episodio dell’incontro di Ettore con la moglie e il figlio sulle mura di Troia, alle porte Scee, prima del duello con Achille. […] Così disse Ettore glorioso, e poi venne verso di me. Io tenevo suo figlio in braccio, capite? E lui si avvicinò e fece per prenderlo tra le sue mani. Ma il bambino si strinse al mio petto, scoppiando a piangere, lo aveva impaurito veder il padre, lo spaventavano quelle armi di bronzo, e il pennacchio sull’elmo, lo vedeva ondeggiare, spaventoso, e così scoppiò a piangere. E mi ricordo che allora Ettore e Andromaca si guardarono e sorrisero. Poi lui si tolse l’elmo e lo posò a terra. Allora il bambino si fece prendere, e lui lo strinse tra le sue braccia. E lo baciò. E sollevandolo in alto disse: “Zeus, e voi, divinità del cielo, fate che questo mio figlio sia come me, più forte tra tutti i Troiani, e signore di Ilio. Fate che la gente, vedendolo tornare dalla battaglia, dica: “È perfino più forte di suo padre”. Fate che torni un giorno portando le spoglie insanguinate dei nemici, e fate che sua madre sia là, quel giorno, a gioire nel suo cuore”. E mentre diceva queste parole mise il figlio tra le braccia di Andromaca. E mi ricordo che lei sorrideva e piangeva, stringendosi al petto il suo bambino, piangeva e sorrideva: e guardandola Ettore ebbe pietà di lei, e la accarezzò, e le disse. “Non affliggerti troppo nel tuo cuore. Nessuno riuscirà ad uccidermi se non lo vorrà il destino; e se il destino lo vorrà, allora pensa che al destino nessun uomo, una volta che è nato, può sfuggire. Vile o coraggioso che sia. Nessuno. Ora torna a casa e rimettiti al lavoro, al fuso e al telaio, con le ancelle. Lascia che alla guerra pensino gli uomini, tutti gli uomini di Ilio, e io più di ogni altro uomo di Ilio”. Poi si chinò e riprese l’elmo da terra, l’elmo dalla chioma ondeggiante. Noi tornammo a casa. Camminando, piangeva, Andromaca, e continuava a voltarsi indietro. Quando le ancelle la videro arrivare, in tutte loro suscitò una grande tristezza. Tutte scoppiarono in pianto. Piangevano Ettore, lo piangevano nella sua casa e lo piangevano mentre ancora era vivo. Perché nessuna pensava in cuor suo che vivo sarebbe tornato dalla battaglia. (Tratto da: A. Baricco, Omero, Iliade, Milano, Feltrinelli, 2004, pp.52-53)
A4. Andromaca "sorrideva e piangeva" nello stesso tempo (espressione evidenziata nel testo), agitata da sentimenti contrastanti. Quali motivazioni, tra quelle indicate, possono spiegare rispettivamente i due comportamenti di Andromaca? b) Per la tenera s cena tra padre e figlio
sorriso
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2019_10_SIM_A
binaria
pianto
sorriso
non pertinente
Ettore, Andromaca e il figlioletto alle Porte Scee L’autore procede a una riscrittura dell’Iliade per adattare il poema omerico a una lettura pubblica in teatro. Nel testo, a differenza di Omero, l'autore affida alla nutrice il racconto dell’episodio dell’incontro di Ettore con la moglie e il figlio sulle mura di Troia, alle porte Scee, prima del duello con Achille. […] Così disse Ettore glorioso, e poi venne verso di me. Io tenevo suo figlio in braccio, capite? E lui si avvicinò e fece per prenderlo tra le sue mani. Ma il bambino si strinse al mio petto, scoppiando a piangere, lo aveva impaurito veder il padre, lo spaventavano quelle armi di bronzo, e il pennacchio sull’elmo, lo vedeva ondeggiare, spaventoso, e così scoppiò a piangere. E mi ricordo che allora Ettore e Andromaca si guardarono e sorrisero. Poi lui si tolse l’elmo e lo posò a terra. Allora il bambino si fece prendere, e lui lo strinse tra le sue braccia. E lo baciò. E sollevandolo in alto disse: “Zeus, e voi, divinità del cielo, fate che questo mio figlio sia come me, più forte tra tutti i Troiani, e signore di Ilio. Fate che la gente, vedendolo tornare dalla battaglia, dica: “È perfino più forte di suo padre”. Fate che torni un giorno portando le spoglie insanguinate dei nemici, e fate che sua madre sia là, quel giorno, a gioire nel suo cuore”. E mentre diceva queste parole mise il figlio tra le braccia di Andromaca. E mi ricordo che lei sorrideva e piangeva, stringendosi al petto il suo bambino, piangeva e sorrideva: e guardandola Ettore ebbe pietà di lei, e la accarezzò, e le disse. “Non affliggerti troppo nel tuo cuore. Nessuno riuscirà ad uccidermi se non lo vorrà il destino; e se il destino lo vorrà, allora pensa che al destino nessun uomo, una volta che è nato, può sfuggire. Vile o coraggioso che sia. Nessuno. Ora torna a casa e rimettiti al lavoro, al fuso e al telaio, con le ancelle. Lascia che alla guerra pensino gli uomini, tutti gli uomini di Ilio, e io più di ogni altro uomo di Ilio”. Poi si chinò e riprese l’elmo da terra, l’elmo dalla chioma ondeggiante. Noi tornammo a casa. Camminando, piangeva, Andromaca, e continuava a voltarsi indietro. Quando le ancelle la videro arrivare, in tutte loro suscitò una grande tristezza. Tutte scoppiarono in pianto. Piangevano Ettore, lo piangevano nella sua casa e lo piangevano mentre ancora era vivo. Perché nessuna pensava in cuor suo che vivo sarebbe tornato dalla battaglia. (Tratto da: A. Baricco, Omero, Iliade, Milano, Feltrinelli, 2004, pp.52-53)
A4. Andromaca "sorrideva e piangeva" nello stesso tempo (espressione evidenziata nel testo), agitata da sentimenti contrastanti. Quali motivazioni, tra quelle indicate, possono spiegare rispettivamente i due comportamenti di Andromaca? c) Per l’orgoglio di essere regina
non pertinente
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2019_10_SIM_A
binaria
pianto
sorriso
non pertinente
Ettore, Andromaca e il figlioletto alle Porte Scee L’autore procede a una riscrittura dell’Iliade per adattare il poema omerico a una lettura pubblica in teatro. Nel testo, a differenza di Omero, l'autore affida alla nutrice il racconto dell’episodio dell’incontro di Ettore con la moglie e il figlio sulle mura di Troia, alle porte Scee, prima del duello con Achille. […] Così disse Ettore glorioso, e poi venne verso di me. Io tenevo suo figlio in braccio, capite? E lui si avvicinò e fece per prenderlo tra le sue mani. Ma il bambino si strinse al mio petto, scoppiando a piangere, lo aveva impaurito veder il padre, lo spaventavano quelle armi di bronzo, e il pennacchio sull’elmo, lo vedeva ondeggiare, spaventoso, e così scoppiò a piangere. E mi ricordo che allora Ettore e Andromaca si guardarono e sorrisero. Poi lui si tolse l’elmo e lo posò a terra. Allora il bambino si fece prendere, e lui lo strinse tra le sue braccia. E lo baciò. E sollevandolo in alto disse: “Zeus, e voi, divinità del cielo, fate che questo mio figlio sia come me, più forte tra tutti i Troiani, e signore di Ilio. Fate che la gente, vedendolo tornare dalla battaglia, dica: “È perfino più forte di suo padre”. Fate che torni un giorno portando le spoglie insanguinate dei nemici, e fate che sua madre sia là, quel giorno, a gioire nel suo cuore”. E mentre diceva queste parole mise il figlio tra le braccia di Andromaca. E mi ricordo che lei sorrideva e piangeva, stringendosi al petto il suo bambino, piangeva e sorrideva: e guardandola Ettore ebbe pietà di lei, e la accarezzò, e le disse. “Non affliggerti troppo nel tuo cuore. Nessuno riuscirà ad uccidermi se non lo vorrà il destino; e se il destino lo vorrà, allora pensa che al destino nessun uomo, una volta che è nato, può sfuggire. Vile o coraggioso che sia. Nessuno. Ora torna a casa e rimettiti al lavoro, al fuso e al telaio, con le ancelle. Lascia che alla guerra pensino gli uomini, tutti gli uomini di Ilio, e io più di ogni altro uomo di Ilio”. Poi si chinò e riprese l’elmo da terra, l’elmo dalla chioma ondeggiante. Noi tornammo a casa. Camminando, piangeva, Andromaca, e continuava a voltarsi indietro. Quando le ancelle la videro arrivare, in tutte loro suscitò una grande tristezza. Tutte scoppiarono in pianto. Piangevano Ettore, lo piangevano nella sua casa e lo piangevano mentre ancora era vivo. Perché nessuna pensava in cuor suo che vivo sarebbe tornato dalla battaglia. (Tratto da: A. Baricco, Omero, Iliade, Milano, Feltrinelli, 2004, pp.52-53)
A4. Andromaca "sorrideva e piangeva" nello stesso tempo (espressione evidenziata nel testo), agitata da sentimenti contrastanti. Quali motivazioni, tra quelle indicate, possono spiegare rispettivamente i due comportamenti di Andromaca? d) Per il timore dell’uccisione di Ettore
pianto
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2019_10_SIM_A
binaria
pianto
sorriso
non pertinente
Ettore, Andromaca e il figlioletto alle Porte Scee L’autore procede a una riscrittura dell’Iliade per adattare il poema omerico a una lettura pubblica in teatro. Nel testo, a differenza di Omero, l'autore affida alla nutrice il racconto dell’episodio dell’incontro di Ettore con la moglie e il figlio sulle mura di Troia, alle porte Scee, prima del duello con Achille. […] Così disse Ettore glorioso, e poi venne verso di me. Io tenevo suo figlio in braccio, capite? E lui si avvicinò e fece per prenderlo tra le sue mani. Ma il bambino si strinse al mio petto, scoppiando a piangere, lo aveva impaurito veder il padre, lo spaventavano quelle armi di bronzo, e il pennacchio sull’elmo, lo vedeva ondeggiare, spaventoso, e così scoppiò a piangere. E mi ricordo che allora Ettore e Andromaca si guardarono e sorrisero. Poi lui si tolse l’elmo e lo posò a terra. Allora il bambino si fece prendere, e lui lo strinse tra le sue braccia. E lo baciò. E sollevandolo in alto disse: “Zeus, e voi, divinità del cielo, fate che questo mio figlio sia come me, più forte tra tutti i Troiani, e signore di Ilio. Fate che la gente, vedendolo tornare dalla battaglia, dica: “È perfino più forte di suo padre”. Fate che torni un giorno portando le spoglie insanguinate dei nemici, e fate che sua madre sia là, quel giorno, a gioire nel suo cuore”. E mentre diceva queste parole mise il figlio tra le braccia di Andromaca. E mi ricordo che lei sorrideva e piangeva, stringendosi al petto il suo bambino, piangeva e sorrideva: e guardandola Ettore ebbe pietà di lei, e la accarezzò, e le disse. “Non affliggerti troppo nel tuo cuore. Nessuno riuscirà ad uccidermi se non lo vorrà il destino; e se il destino lo vorrà, allora pensa che al destino nessun uomo, una volta che è nato, può sfuggire. Vile o coraggioso che sia. Nessuno. Ora torna a casa e rimettiti al lavoro, al fuso e al telaio, con le ancelle. Lascia che alla guerra pensino gli uomini, tutti gli uomini di Ilio, e io più di ogni altro uomo di Ilio”. Poi si chinò e riprese l’elmo da terra, l’elmo dalla chioma ondeggiante. Noi tornammo a casa. Camminando, piangeva, Andromaca, e continuava a voltarsi indietro. Quando le ancelle la videro arrivare, in tutte loro suscitò una grande tristezza. Tutte scoppiarono in pianto. Piangevano Ettore, lo piangevano nella sua casa e lo piangevano mentre ancora era vivo. Perché nessuna pensava in cuor suo che vivo sarebbe tornato dalla battaglia. (Tratto da: A. Baricco, Omero, Iliade, Milano, Feltrinelli, 2004, pp.52-53)
A4. Andromaca "sorrideva e piangeva" nello stesso tempo (espressione evidenziata nel testo), agitata da sentimenti contrastanti. Quali motivazioni, tra quelle indicate, possono spiegare rispettivamente i due comportamenti di Andromaca? e) Per la fierezza suscitata dalle parole di Ettore per il figlio
sorriso
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2019_10_SIM_A
binaria
pianto
sorriso
non pertinente
Ettore, Andromaca e il figlioletto alle Porte Scee L’autore procede a una riscrittura dell’Iliade per adattare il poema omerico a una lettura pubblica in teatro. Nel testo, a differenza di Omero, l'autore affida alla nutrice il racconto dell’episodio dell’incontro di Ettore con la moglie e il figlio sulle mura di Troia, alle porte Scee, prima del duello con Achille. […] Così disse Ettore glorioso, e poi venne verso di me. Io tenevo suo figlio in braccio, capite? E lui si avvicinò e fece per prenderlo tra le sue mani. Ma il bambino si strinse al mio petto, scoppiando a piangere, lo aveva impaurito veder il padre, lo spaventavano quelle armi di bronzo, e il pennacchio sull’elmo, lo vedeva ondeggiare, spaventoso, e così scoppiò a piangere. E mi ricordo che allora Ettore e Andromaca si guardarono e sorrisero. Poi lui si tolse l’elmo e lo posò a terra. Allora il bambino si fece prendere, e lui lo strinse tra le sue braccia. E lo baciò. E sollevandolo in alto disse: “Zeus, e voi, divinità del cielo, fate che questo mio figlio sia come me, più forte tra tutti i Troiani, e signore di Ilio. Fate che la gente, vedendolo tornare dalla battaglia, dica: “È perfino più forte di suo padre”. Fate che torni un giorno portando le spoglie insanguinate dei nemici, e fate che sua madre sia là, quel giorno, a gioire nel suo cuore”. E mentre diceva queste parole mise il figlio tra le braccia di Andromaca. E mi ricordo che lei sorrideva e piangeva, stringendosi al petto il suo bambino, piangeva e sorrideva: e guardandola Ettore ebbe pietà di lei, e la accarezzò, e le disse. “Non affliggerti troppo nel tuo cuore. Nessuno riuscirà ad uccidermi se non lo vorrà il destino; e se il destino lo vorrà, allora pensa che al destino nessun uomo, una volta che è nato, può sfuggire. Vile o coraggioso che sia. Nessuno. Ora torna a casa e rimettiti al lavoro, al fuso e al telaio, con le ancelle. Lascia che alla guerra pensino gli uomini, tutti gli uomini di Ilio, e io più di ogni altro uomo di Ilio”. Poi si chinò e riprese l’elmo da terra, l’elmo dalla chioma ondeggiante. Noi tornammo a casa. Camminando, piangeva, Andromaca, e continuava a voltarsi indietro. Quando le ancelle la videro arrivare, in tutte loro suscitò una grande tristezza. Tutte scoppiarono in pianto. Piangevano Ettore, lo piangevano nella sua casa e lo piangevano mentre ancora era vivo. Perché nessuna pensava in cuor suo che vivo sarebbe tornato dalla battaglia. (Tratto da: A. Baricco, Omero, Iliade, Milano, Feltrinelli, 2004, pp.52-53)
A4. Andromaca "sorrideva e piangeva" nello stesso tempo (espressione evidenziata nel testo), agitata da sentimenti contrastanti. Quali motivazioni, tra quelle indicate, possono spiegare rispettivamente i due comportamenti di Andromaca? f) Per l’essere messa in disparte in quanto donna
non pertinente
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2019_10_SIM_A
binaria
pianto
sorriso
non pertinente
Ettore, Andromaca e il figlioletto alle Porte Scee L’autore procede a una riscrittura dell’Iliade per adattare il poema omerico a una lettura pubblica in teatro. Nel testo, a differenza di Omero, l'autore affida alla nutrice il racconto dell’episodio dell’incontro di Ettore con la moglie e il figlio sulle mura di Troia, alle porte Scee, prima del duello con Achille. […] Così disse Ettore glorioso, e poi venne verso di me. Io tenevo suo figlio in braccio, capite? E lui si avvicinò e fece per prenderlo tra le sue mani. Ma il bambino si strinse al mio petto, scoppiando a piangere, lo aveva impaurito veder il padre, lo spaventavano quelle armi di bronzo, e il pennacchio sull’elmo, lo vedeva ondeggiare, spaventoso, e così scoppiò a piangere. E mi ricordo che allora Ettore e Andromaca si guardarono e sorrisero. Poi lui si tolse l’elmo e lo posò a terra. Allora il bambino si fece prendere, e lui lo strinse tra le sue braccia. E lo baciò. E sollevandolo in alto disse: “Zeus, e voi, divinità del cielo, fate che questo mio figlio sia come me, più forte tra tutti i Troiani, e signore di Ilio. Fate che la gente, vedendolo tornare dalla battaglia, dica: “È perfino più forte di suo padre”. Fate che torni un giorno portando le spoglie insanguinate dei nemici, e fate che sua madre sia là, quel giorno, a gioire nel suo cuore”. E mentre diceva queste parole mise il figlio tra le braccia di Andromaca. E mi ricordo che lei sorrideva e piangeva, stringendosi al petto il suo bambino, piangeva e sorrideva: e guardandola Ettore ebbe pietà di lei, e la accarezzò, e le disse. “Non affliggerti troppo nel tuo cuore. Nessuno riuscirà ad uccidermi se non lo vorrà il destino; e se il destino lo vorrà, allora pensa che al destino nessun uomo, una volta che è nato, può sfuggire. Vile o coraggioso che sia. Nessuno. Ora torna a casa e rimettiti al lavoro, al fuso e al telaio, con le ancelle. Lascia che alla guerra pensino gli uomini, tutti gli uomini di Ilio, e io più di ogni altro uomo di Ilio”. Poi si chinò e riprese l’elmo da terra, l’elmo dalla chioma ondeggiante. Noi tornammo a casa. Camminando, piangeva, Andromaca, e continuava a voltarsi indietro. Quando le ancelle la videro arrivare, in tutte loro suscitò una grande tristezza. Tutte scoppiarono in pianto. Piangevano Ettore, lo piangevano nella sua casa e lo piangevano mentre ancora era vivo. Perché nessuna pensava in cuor suo che vivo sarebbe tornato dalla battaglia. (Tratto da: A. Baricco, Omero, Iliade, Milano, Feltrinelli, 2004, pp.52-53)
A7. Individua le caratteristiche della narrazione presenti in questo testo. a) Il racconto è svolto attraverso il discorso indiretto
vero
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2019_10_SIM_A
binaria
vero
falso
null
Ettore, Andromaca e il figlioletto alle Porte Scee L’autore procede a una riscrittura dell’Iliade per adattare il poema omerico a una lettura pubblica in teatro. Nel testo, a differenza di Omero, l'autore affida alla nutrice il racconto dell’episodio dell’incontro di Ettore con la moglie e il figlio sulle mura di Troia, alle porte Scee, prima del duello con Achille. […] Così disse Ettore glorioso, e poi venne verso di me. Io tenevo suo figlio in braccio, capite? E lui si avvicinò e fece per prenderlo tra le sue mani. Ma il bambino si strinse al mio petto, scoppiando a piangere, lo aveva impaurito veder il padre, lo spaventavano quelle armi di bronzo, e il pennacchio sull’elmo, lo vedeva ondeggiare, spaventoso, e così scoppiò a piangere. E mi ricordo che allora Ettore e Andromaca si guardarono e sorrisero. Poi lui si tolse l’elmo e lo posò a terra. Allora il bambino si fece prendere, e lui lo strinse tra le sue braccia. E lo baciò. E sollevandolo in alto disse: “Zeus, e voi, divinità del cielo, fate che questo mio figlio sia come me, più forte tra tutti i Troiani, e signore di Ilio. Fate che la gente, vedendolo tornare dalla battaglia, dica: “È perfino più forte di suo padre”. Fate che torni un giorno portando le spoglie insanguinate dei nemici, e fate che sua madre sia là, quel giorno, a gioire nel suo cuore”. E mentre diceva queste parole mise il figlio tra le braccia di Andromaca. E mi ricordo che lei sorrideva e piangeva, stringendosi al petto il suo bambino, piangeva e sorrideva: e guardandola Ettore ebbe pietà di lei, e la accarezzò, e le disse. “Non affliggerti troppo nel tuo cuore. Nessuno riuscirà ad uccidermi se non lo vorrà il destino; e se il destino lo vorrà, allora pensa che al destino nessun uomo, una volta che è nato, può sfuggire. Vile o coraggioso che sia. Nessuno. Ora torna a casa e rimettiti al lavoro, al fuso e al telaio, con le ancelle. Lascia che alla guerra pensino gli uomini, tutti gli uomini di Ilio, e io più di ogni altro uomo di Ilio”. Poi si chinò e riprese l’elmo da terra, l’elmo dalla chioma ondeggiante. Noi tornammo a casa. Camminando, piangeva, Andromaca, e continuava a voltarsi indietro. Quando le ancelle la videro arrivare, in tutte loro suscitò una grande tristezza. Tutte scoppiarono in pianto. Piangevano Ettore, lo piangevano nella sua casa e lo piangevano mentre ancora era vivo. Perché nessuna pensava in cuor suo che vivo sarebbe tornato dalla battaglia. (Tratto da: A. Baricco, Omero, Iliade, Milano, Feltrinelli, 2004, pp.52-53)
A7. Individua le caratteristiche della narrazione presenti in questo testo. b) Nel testo sono frequenti i dialoghi
vero
['item_236_0.png']
2019_10_SIM_A
binaria
vero
falso
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Ettore, Andromaca e il figlioletto alle Porte Scee L’autore procede a una riscrittura dell’Iliade per adattare il poema omerico a una lettura pubblica in teatro. Nel testo, a differenza di Omero, l'autore affida alla nutrice il racconto dell’episodio dell’incontro di Ettore con la moglie e il figlio sulle mura di Troia, alle porte Scee, prima del duello con Achille. […] Così disse Ettore glorioso, e poi venne verso di me. Io tenevo suo figlio in braccio, capite? E lui si avvicinò e fece per prenderlo tra le sue mani. Ma il bambino si strinse al mio petto, scoppiando a piangere, lo aveva impaurito veder il padre, lo spaventavano quelle armi di bronzo, e il pennacchio sull’elmo, lo vedeva ondeggiare, spaventoso, e così scoppiò a piangere. E mi ricordo che allora Ettore e Andromaca si guardarono e sorrisero. Poi lui si tolse l’elmo e lo posò a terra. Allora il bambino si fece prendere, e lui lo strinse tra le sue braccia. E lo baciò. E sollevandolo in alto disse: “Zeus, e voi, divinità del cielo, fate che questo mio figlio sia come me, più forte tra tutti i Troiani, e signore di Ilio. Fate che la gente, vedendolo tornare dalla battaglia, dica: “È perfino più forte di suo padre”. Fate che torni un giorno portando le spoglie insanguinate dei nemici, e fate che sua madre sia là, quel giorno, a gioire nel suo cuore”. E mentre diceva queste parole mise il figlio tra le braccia di Andromaca. E mi ricordo che lei sorrideva e piangeva, stringendosi al petto il suo bambino, piangeva e sorrideva: e guardandola Ettore ebbe pietà di lei, e la accarezzò, e le disse. “Non affliggerti troppo nel tuo cuore. Nessuno riuscirà ad uccidermi se non lo vorrà il destino; e se il destino lo vorrà, allora pensa che al destino nessun uomo, una volta che è nato, può sfuggire. Vile o coraggioso che sia. Nessuno. Ora torna a casa e rimettiti al lavoro, al fuso e al telaio, con le ancelle. Lascia che alla guerra pensino gli uomini, tutti gli uomini di Ilio, e io più di ogni altro uomo di Ilio”. Poi si chinò e riprese l’elmo da terra, l’elmo dalla chioma ondeggiante. Noi tornammo a casa. Camminando, piangeva, Andromaca, e continuava a voltarsi indietro. Quando le ancelle la videro arrivare, in tutte loro suscitò una grande tristezza. Tutte scoppiarono in pianto. Piangevano Ettore, lo piangevano nella sua casa e lo piangevano mentre ancora era vivo. Perché nessuna pensava in cuor suo che vivo sarebbe tornato dalla battaglia. (Tratto da: A. Baricco, Omero, Iliade, Milano, Feltrinelli, 2004, pp.52-53)
A7. Individua le caratteristiche della narrazione presenti in questo testo. c) La narrazione è destinata alla lettura teatrale
vero
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binaria
vero
falso
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Ettore, Andromaca e il figlioletto alle Porte Scee L’autore procede a una riscrittura dell’Iliade per adattare il poema omerico a una lettura pubblica in teatro. Nel testo, a differenza di Omero, l'autore affida alla nutrice il racconto dell’episodio dell’incontro di Ettore con la moglie e il figlio sulle mura di Troia, alle porte Scee, prima del duello con Achille. […] Così disse Ettore glorioso, e poi venne verso di me. Io tenevo suo figlio in braccio, capite? E lui si avvicinò e fece per prenderlo tra le sue mani. Ma il bambino si strinse al mio petto, scoppiando a piangere, lo aveva impaurito veder il padre, lo spaventavano quelle armi di bronzo, e il pennacchio sull’elmo, lo vedeva ondeggiare, spaventoso, e così scoppiò a piangere. E mi ricordo che allora Ettore e Andromaca si guardarono e sorrisero. Poi lui si tolse l’elmo e lo posò a terra. Allora il bambino si fece prendere, e lui lo strinse tra le sue braccia. E lo baciò. E sollevandolo in alto disse: “Zeus, e voi, divinità del cielo, fate che questo mio figlio sia come me, più forte tra tutti i Troiani, e signore di Ilio. Fate che la gente, vedendolo tornare dalla battaglia, dica: “È perfino più forte di suo padre”. Fate che torni un giorno portando le spoglie insanguinate dei nemici, e fate che sua madre sia là, quel giorno, a gioire nel suo cuore”. E mentre diceva queste parole mise il figlio tra le braccia di Andromaca. E mi ricordo che lei sorrideva e piangeva, stringendosi al petto il suo bambino, piangeva e sorrideva: e guardandola Ettore ebbe pietà di lei, e la accarezzò, e le disse. “Non affliggerti troppo nel tuo cuore. Nessuno riuscirà ad uccidermi se non lo vorrà il destino; e se il destino lo vorrà, allora pensa che al destino nessun uomo, una volta che è nato, può sfuggire. Vile o coraggioso che sia. Nessuno. Ora torna a casa e rimettiti al lavoro, al fuso e al telaio, con le ancelle. Lascia che alla guerra pensino gli uomini, tutti gli uomini di Ilio, e io più di ogni altro uomo di Ilio”. Poi si chinò e riprese l’elmo da terra, l’elmo dalla chioma ondeggiante. Noi tornammo a casa. Camminando, piangeva, Andromaca, e continuava a voltarsi indietro. Quando le ancelle la videro arrivare, in tutte loro suscitò una grande tristezza. Tutte scoppiarono in pianto. Piangevano Ettore, lo piangevano nella sua casa e lo piangevano mentre ancora era vivo. Perché nessuna pensava in cuor suo che vivo sarebbe tornato dalla battaglia. (Tratto da: A. Baricco, Omero, Iliade, Milano, Feltrinelli, 2004, pp.52-53)
A7. Individua le caratteristiche della narrazione presenti in questo testo. d) Il racconto è condotto con un tono distaccato e impersonale
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Ettore, Andromaca e il figlioletto alle Porte Scee L’autore procede a una riscrittura dell’Iliade per adattare il poema omerico a una lettura pubblica in teatro. Nel testo, a differenza di Omero, l'autore affida alla nutrice il racconto dell’episodio dell’incontro di Ettore con la moglie e il figlio sulle mura di Troia, alle porte Scee, prima del duello con Achille. […] Così disse Ettore glorioso, e poi venne verso di me. Io tenevo suo figlio in braccio, capite? E lui si avvicinò e fece per prenderlo tra le sue mani. Ma il bambino si strinse al mio petto, scoppiando a piangere, lo aveva impaurito veder il padre, lo spaventavano quelle armi di bronzo, e il pennacchio sull’elmo, lo vedeva ondeggiare, spaventoso, e così scoppiò a piangere. E mi ricordo che allora Ettore e Andromaca si guardarono e sorrisero. Poi lui si tolse l’elmo e lo posò a terra. Allora il bambino si fece prendere, e lui lo strinse tra le sue braccia. E lo baciò. E sollevandolo in alto disse: “Zeus, e voi, divinità del cielo, fate che questo mio figlio sia come me, più forte tra tutti i Troiani, e signore di Ilio. Fate che la gente, vedendolo tornare dalla battaglia, dica: “È perfino più forte di suo padre”. Fate che torni un giorno portando le spoglie insanguinate dei nemici, e fate che sua madre sia là, quel giorno, a gioire nel suo cuore”. E mentre diceva queste parole mise il figlio tra le braccia di Andromaca. E mi ricordo che lei sorrideva e piangeva, stringendosi al petto il suo bambino, piangeva e sorrideva: e guardandola Ettore ebbe pietà di lei, e la accarezzò, e le disse. “Non affliggerti troppo nel tuo cuore. Nessuno riuscirà ad uccidermi se non lo vorrà il destino; e se il destino lo vorrà, allora pensa che al destino nessun uomo, una volta che è nato, può sfuggire. Vile o coraggioso che sia. Nessuno. Ora torna a casa e rimettiti al lavoro, al fuso e al telaio, con le ancelle. Lascia che alla guerra pensino gli uomini, tutti gli uomini di Ilio, e io più di ogni altro uomo di Ilio”. Poi si chinò e riprese l’elmo da terra, l’elmo dalla chioma ondeggiante. Noi tornammo a casa. Camminando, piangeva, Andromaca, e continuava a voltarsi indietro. Quando le ancelle la videro arrivare, in tutte loro suscitò una grande tristezza. Tutte scoppiarono in pianto. Piangevano Ettore, lo piangevano nella sua casa e lo piangevano mentre ancora era vivo. Perché nessuna pensava in cuor suo che vivo sarebbe tornato dalla battaglia. (Tratto da: A. Baricco, Omero, Iliade, Milano, Feltrinelli, 2004, pp.52-53)
A7. Individua le caratteristiche della narrazione presenti in questo testo. e) Ettore manifesta il suo stato d’animo attraverso un monologo
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binaria
vero
falso
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“Ispirati dagli archivi 2016”. Alla scoperta dei documenti che non ti aspetti “Archiviare è uguale a dimenticare. Ecco cosa significa questo verbo nel linguaggio comune, oggi. Eppure, gli archivi sono esattamente l'opposto”. Le parole di Andrea Camilleri, testimonial dell'evento “Ispirati dagli archivi 2016” dal 14 al 19 marzo in tutta Italia, aprono uno spiraglio di luce su quelle pagine preziose che custodiscono la storia del Paese e del suo patrimonio artistico e culturale. Spesso relegate al buio degli scaffali, a quello della segretezza di Stato o, più spesso, solo a quello dell'ignoranza. L'associazione nazionale archivisti italiani (ANAI) promuove una settimana di eventi in tutta Italia per non dimenticare la ricchezza del patrimonio archivistico del nostro Paese e sensibilizzare cittadini e istituzioni sull'importanza della sua tutela. Per alcuni di loro gli archivi pubblici dello Stato, circa ventimila, sono già un bene prezioso, il principale strumento di lavoro e un luogo di inesauribile fascino: storici, giornalisti, ricercatori. L'invito ora è rivolto a tutti, perché gli archivi parlano di ciascuno, essendo la memoria di tutti. Secoli di sapere, vite, storie. “Un'archivista una volta mi ha riferito lo stupore dei bambini di una scolaresca in visita nell'archivio del loro comune, che avevano timore reverenziale nei confronti di tutte quelle pergamene medievali. Le maestre dicevano 'Non toccate, mi raccomando.' Lei invece: 'Toccatele bambini, perché queste carte vi appartengono, fanno parte di voi e della vostra storia'”. A parlare è Augusto Cherchi, vicepresidente dell'ANAI, che ha lanciato il grido d'allarme per la mancanza di risorse, investimenti, politiche di formazione. L'80% degli archivisti italiani ha tra i 55 e i 60 anni. “E non ne rimase nessuno”, con le parole di Agatha Christie, usate dalla stessa associazione per uno slogan di qualche tempo fa. È una sfida per loro, che devono scucirsi di dosso lo stereotipo del “topo d'archivio in un seminterrato tra pagine impolverate e noiose”. “Abbiamo un account Twitter” continua Cherchi “vogliamo impegnarci nella comunicazione, anche se non siamo nativi digitali”. E comunicare che, ad esempio, ci sono gli archivisti liberi professionisti, che fanno i consulenti per le aziende. Quelli che si dedicano al progetto più ambizioso del mondo in termini di digitalizzazione di materiale audiovisivo e multimediale: le Teche Rai. Altri che diventano “mediatori del diritto” nei casi di richieste di oblio. “Quando sono stati pubblicati online i documenti degli iscritti al partito nazionale fascista, scaduti i 70 anni del segreto di Stato, ne abbiamo ricevute tante. Un documento pubblico, se pubblicato in rete, può creare controversie”. Google fa paura. A chi sta dentro alle pagine e a chi le maneggia tutti i giorni, per lavoro, con amore. “Ci vuole fatica per sfogliare i documenti cartacei. Ma in fondo, quella parola che mettiamo nella stringa di Google ci restituisce solo il mondo di Google. Che non è il mondo”, ci tiene a precisare Cherchi. Quante risposte che Google non può darci sono racchiuse tra due fogli, a qualche centinaio di metri da casa, magari nell'archivio del nostro piccolo comune? È la settimana giusta per scoprirlo: saranno giorni di “archivi parlanti”, in una polifonia di mostre, proiezioni e incontri con i protagonisti di questo mondo ancora avvolto dal mistero […]. Si andrà alla scoperta della storia delle comunità religiose con i documenti dell'ordine dei francescani messi a disposizione in Umbria o quelli sulle leggi razziali consultabili nell'archivio di stato di Milano; si ricorderanno i successi imprenditoriali del nostro Paese, con la Olivetti che apre il suo archivio storico a Ivrea. Adesioni e supporto sono arrivati anche dall'estero per questa iniziativa culturale che offre centinaia di eventi che uniscono nord, sud e isole e si concludono con una tavola rotonda il 19 marzo a Roma. Gli archivi sono l'opposto del dimenticare. “Sono eternamente vivi. Memoria palpabile del nostro passato”, ribadisce Camilleri. In un paese dove le stragi degli anni di piombo non hanno colpevoli e la trasparenza dell'Amministrazione pubblica è ancora una chimera, l'archivio resta l'ultima speranza di scrittori, storici, giornalisti, ricercatori. E si fa studiare, proprio da un gruppo di ricercatori italiani a Londra, che hanno ricevuto un finanziamento ERC per approfondire la storia degli archivi italiani. Almeno quelli, per ora, non si muovono. (Tratto da: A. Borella, “Ispirati dagli archivi 2016”. Alla scoperta dei documenti che non ti aspetti, La Repubblica, Cultura, 4 aprile 2016)
B4. Il testo richiama alcuni luoghi comuni sugli archivi e sulle persone che vi lavorano. Indica quali affermazioni, secondo la prospettiva dell'articolo, sono vere e quali false. a) “Archiviare” significa mettere da parte alcune informazioni per liberare memoria
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“Ispirati dagli archivi 2016”. Alla scoperta dei documenti che non ti aspetti “Archiviare è uguale a dimenticare. Ecco cosa significa questo verbo nel linguaggio comune, oggi. Eppure, gli archivi sono esattamente l'opposto”. Le parole di Andrea Camilleri, testimonial dell'evento “Ispirati dagli archivi 2016” dal 14 al 19 marzo in tutta Italia, aprono uno spiraglio di luce su quelle pagine preziose che custodiscono la storia del Paese e del suo patrimonio artistico e culturale. Spesso relegate al buio degli scaffali, a quello della segretezza di Stato o, più spesso, solo a quello dell'ignoranza. L'associazione nazionale archivisti italiani (ANAI) promuove una settimana di eventi in tutta Italia per non dimenticare la ricchezza del patrimonio archivistico del nostro Paese e sensibilizzare cittadini e istituzioni sull'importanza della sua tutela. Per alcuni di loro gli archivi pubblici dello Stato, circa ventimila, sono già un bene prezioso, il principale strumento di lavoro e un luogo di inesauribile fascino: storici, giornalisti, ricercatori. L'invito ora è rivolto a tutti, perché gli archivi parlano di ciascuno, essendo la memoria di tutti. Secoli di sapere, vite, storie. “Un'archivista una volta mi ha riferito lo stupore dei bambini di una scolaresca in visita nell'archivio del loro comune, che avevano timore reverenziale nei confronti di tutte quelle pergamene medievali. Le maestre dicevano 'Non toccate, mi raccomando.' Lei invece: 'Toccatele bambini, perché queste carte vi appartengono, fanno parte di voi e della vostra storia'”. A parlare è Augusto Cherchi, vicepresidente dell'ANAI, che ha lanciato il grido d'allarme per la mancanza di risorse, investimenti, politiche di formazione. L'80% degli archivisti italiani ha tra i 55 e i 60 anni. “E non ne rimase nessuno”, con le parole di Agatha Christie, usate dalla stessa associazione per uno slogan di qualche tempo fa. È una sfida per loro, che devono scucirsi di dosso lo stereotipo del “topo d'archivio in un seminterrato tra pagine impolverate e noiose”. “Abbiamo un account Twitter” continua Cherchi “vogliamo impegnarci nella comunicazione, anche se non siamo nativi digitali”. E comunicare che, ad esempio, ci sono gli archivisti liberi professionisti, che fanno i consulenti per le aziende. Quelli che si dedicano al progetto più ambizioso del mondo in termini di digitalizzazione di materiale audiovisivo e multimediale: le Teche Rai. Altri che diventano “mediatori del diritto” nei casi di richieste di oblio. “Quando sono stati pubblicati online i documenti degli iscritti al partito nazionale fascista, scaduti i 70 anni del segreto di Stato, ne abbiamo ricevute tante. Un documento pubblico, se pubblicato in rete, può creare controversie”. Google fa paura. A chi sta dentro alle pagine e a chi le maneggia tutti i giorni, per lavoro, con amore. “Ci vuole fatica per sfogliare i documenti cartacei. Ma in fondo, quella parola che mettiamo nella stringa di Google ci restituisce solo il mondo di Google. Che non è il mondo”, ci tiene a precisare Cherchi. Quante risposte che Google non può darci sono racchiuse tra due fogli, a qualche centinaio di metri da casa, magari nell'archivio del nostro piccolo comune? È la settimana giusta per scoprirlo: saranno giorni di “archivi parlanti”, in una polifonia di mostre, proiezioni e incontri con i protagonisti di questo mondo ancora avvolto dal mistero […]. Si andrà alla scoperta della storia delle comunità religiose con i documenti dell'ordine dei francescani messi a disposizione in Umbria o quelli sulle leggi razziali consultabili nell'archivio di stato di Milano; si ricorderanno i successi imprenditoriali del nostro Paese, con la Olivetti che apre il suo archivio storico a Ivrea. Adesioni e supporto sono arrivati anche dall'estero per questa iniziativa culturale che offre centinaia di eventi che uniscono nord, sud e isole e si concludono con una tavola rotonda il 19 marzo a Roma. Gli archivi sono l'opposto del dimenticare. “Sono eternamente vivi. Memoria palpabile del nostro passato”, ribadisce Camilleri. In un paese dove le stragi degli anni di piombo non hanno colpevoli e la trasparenza dell'Amministrazione pubblica è ancora una chimera, l'archivio resta l'ultima speranza di scrittori, storici, giornalisti, ricercatori. E si fa studiare, proprio da un gruppo di ricercatori italiani a Londra, che hanno ricevuto un finanziamento ERC per approfondire la storia degli archivi italiani. Almeno quelli, per ora, non si muovono. (Tratto da: A. Borella, “Ispirati dagli archivi 2016”. Alla scoperta dei documenti che non ti aspetti, La Repubblica, Cultura, 4 aprile 2016)
B4. Il testo richiama alcuni luoghi comuni sugli archivi e sulle persone che vi lavorano. Indica quali affermazioni, secondo la prospettiva dell'articolo, sono vere e quali false. b) Chi si occupa di archivi usa strumenti antiquati
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“Ispirati dagli archivi 2016”. Alla scoperta dei documenti che non ti aspetti “Archiviare è uguale a dimenticare. Ecco cosa significa questo verbo nel linguaggio comune, oggi. Eppure, gli archivi sono esattamente l'opposto”. Le parole di Andrea Camilleri, testimonial dell'evento “Ispirati dagli archivi 2016” dal 14 al 19 marzo in tutta Italia, aprono uno spiraglio di luce su quelle pagine preziose che custodiscono la storia del Paese e del suo patrimonio artistico e culturale. Spesso relegate al buio degli scaffali, a quello della segretezza di Stato o, più spesso, solo a quello dell'ignoranza. L'associazione nazionale archivisti italiani (ANAI) promuove una settimana di eventi in tutta Italia per non dimenticare la ricchezza del patrimonio archivistico del nostro Paese e sensibilizzare cittadini e istituzioni sull'importanza della sua tutela. Per alcuni di loro gli archivi pubblici dello Stato, circa ventimila, sono già un bene prezioso, il principale strumento di lavoro e un luogo di inesauribile fascino: storici, giornalisti, ricercatori. L'invito ora è rivolto a tutti, perché gli archivi parlano di ciascuno, essendo la memoria di tutti. Secoli di sapere, vite, storie. “Un'archivista una volta mi ha riferito lo stupore dei bambini di una scolaresca in visita nell'archivio del loro comune, che avevano timore reverenziale nei confronti di tutte quelle pergamene medievali. Le maestre dicevano 'Non toccate, mi raccomando.' Lei invece: 'Toccatele bambini, perché queste carte vi appartengono, fanno parte di voi e della vostra storia'”. A parlare è Augusto Cherchi, vicepresidente dell'ANAI, che ha lanciato il grido d'allarme per la mancanza di risorse, investimenti, politiche di formazione. L'80% degli archivisti italiani ha tra i 55 e i 60 anni. “E non ne rimase nessuno”, con le parole di Agatha Christie, usate dalla stessa associazione per uno slogan di qualche tempo fa. È una sfida per loro, che devono scucirsi di dosso lo stereotipo del “topo d'archivio in un seminterrato tra pagine impolverate e noiose”. “Abbiamo un account Twitter” continua Cherchi “vogliamo impegnarci nella comunicazione, anche se non siamo nativi digitali”. E comunicare che, ad esempio, ci sono gli archivisti liberi professionisti, che fanno i consulenti per le aziende. Quelli che si dedicano al progetto più ambizioso del mondo in termini di digitalizzazione di materiale audiovisivo e multimediale: le Teche Rai. Altri che diventano “mediatori del diritto” nei casi di richieste di oblio. “Quando sono stati pubblicati online i documenti degli iscritti al partito nazionale fascista, scaduti i 70 anni del segreto di Stato, ne abbiamo ricevute tante. Un documento pubblico, se pubblicato in rete, può creare controversie”. Google fa paura. A chi sta dentro alle pagine e a chi le maneggia tutti i giorni, per lavoro, con amore. “Ci vuole fatica per sfogliare i documenti cartacei. Ma in fondo, quella parola che mettiamo nella stringa di Google ci restituisce solo il mondo di Google. Che non è il mondo”, ci tiene a precisare Cherchi. Quante risposte che Google non può darci sono racchiuse tra due fogli, a qualche centinaio di metri da casa, magari nell'archivio del nostro piccolo comune? È la settimana giusta per scoprirlo: saranno giorni di “archivi parlanti”, in una polifonia di mostre, proiezioni e incontri con i protagonisti di questo mondo ancora avvolto dal mistero […]. Si andrà alla scoperta della storia delle comunità religiose con i documenti dell'ordine dei francescani messi a disposizione in Umbria o quelli sulle leggi razziali consultabili nell'archivio di stato di Milano; si ricorderanno i successi imprenditoriali del nostro Paese, con la Olivetti che apre il suo archivio storico a Ivrea. Adesioni e supporto sono arrivati anche dall'estero per questa iniziativa culturale che offre centinaia di eventi che uniscono nord, sud e isole e si concludono con una tavola rotonda il 19 marzo a Roma. Gli archivi sono l'opposto del dimenticare. “Sono eternamente vivi. Memoria palpabile del nostro passato”, ribadisce Camilleri. In un paese dove le stragi degli anni di piombo non hanno colpevoli e la trasparenza dell'Amministrazione pubblica è ancora una chimera, l'archivio resta l'ultima speranza di scrittori, storici, giornalisti, ricercatori. E si fa studiare, proprio da un gruppo di ricercatori italiani a Londra, che hanno ricevuto un finanziamento ERC per approfondire la storia degli archivi italiani. Almeno quelli, per ora, non si muovono. (Tratto da: A. Borella, “Ispirati dagli archivi 2016”. Alla scoperta dei documenti che non ti aspetti, La Repubblica, Cultura, 4 aprile 2016)
B4, Il testo richiama alcuni luoghi comuni sugli archivi e sulle persone che vi lavorano. Indica quali affermazioni, secondo la prospettiva dell'articolo, sono vere e quali false. c) Il lavoro degli archivisti è messo in difficoltà dagli scarsi finanziamenti
vero
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“Ispirati dagli archivi 2016”. Alla scoperta dei documenti che non ti aspetti “Archiviare è uguale a dimenticare. Ecco cosa significa questo verbo nel linguaggio comune, oggi. Eppure, gli archivi sono esattamente l'opposto”. Le parole di Andrea Camilleri, testimonial dell'evento “Ispirati dagli archivi 2016” dal 14 al 19 marzo in tutta Italia, aprono uno spiraglio di luce su quelle pagine preziose che custodiscono la storia del Paese e del suo patrimonio artistico e culturale. Spesso relegate al buio degli scaffali, a quello della segretezza di Stato o, più spesso, solo a quello dell'ignoranza. L'associazione nazionale archivisti italiani (ANAI) promuove una settimana di eventi in tutta Italia per non dimenticare la ricchezza del patrimonio archivistico del nostro Paese e sensibilizzare cittadini e istituzioni sull'importanza della sua tutela. Per alcuni di loro gli archivi pubblici dello Stato, circa ventimila, sono già un bene prezioso, il principale strumento di lavoro e un luogo di inesauribile fascino: storici, giornalisti, ricercatori. L'invito ora è rivolto a tutti, perché gli archivi parlano di ciascuno, essendo la memoria di tutti. Secoli di sapere, vite, storie. “Un'archivista una volta mi ha riferito lo stupore dei bambini di una scolaresca in visita nell'archivio del loro comune, che avevano timore reverenziale nei confronti di tutte quelle pergamene medievali. Le maestre dicevano 'Non toccate, mi raccomando.' Lei invece: 'Toccatele bambini, perché queste carte vi appartengono, fanno parte di voi e della vostra storia'”. A parlare è Augusto Cherchi, vicepresidente dell'ANAI, che ha lanciato il grido d'allarme per la mancanza di risorse, investimenti, politiche di formazione. L'80% degli archivisti italiani ha tra i 55 e i 60 anni. “E non ne rimase nessuno”, con le parole di Agatha Christie, usate dalla stessa associazione per uno slogan di qualche tempo fa. È una sfida per loro, che devono scucirsi di dosso lo stereotipo del “topo d'archivio in un seminterrato tra pagine impolverate e noiose”. “Abbiamo un account Twitter” continua Cherchi “vogliamo impegnarci nella comunicazione, anche se non siamo nativi digitali”. E comunicare che, ad esempio, ci sono gli archivisti liberi professionisti, che fanno i consulenti per le aziende. Quelli che si dedicano al progetto più ambizioso del mondo in termini di digitalizzazione di materiale audiovisivo e multimediale: le Teche Rai. Altri che diventano “mediatori del diritto” nei casi di richieste di oblio. “Quando sono stati pubblicati online i documenti degli iscritti al partito nazionale fascista, scaduti i 70 anni del segreto di Stato, ne abbiamo ricevute tante. Un documento pubblico, se pubblicato in rete, può creare controversie”. Google fa paura. A chi sta dentro alle pagine e a chi le maneggia tutti i giorni, per lavoro, con amore. “Ci vuole fatica per sfogliare i documenti cartacei. Ma in fondo, quella parola che mettiamo nella stringa di Google ci restituisce solo il mondo di Google. Che non è il mondo”, ci tiene a precisare Cherchi. Quante risposte che Google non può darci sono racchiuse tra due fogli, a qualche centinaio di metri da casa, magari nell'archivio del nostro piccolo comune? È la settimana giusta per scoprirlo: saranno giorni di “archivi parlanti”, in una polifonia di mostre, proiezioni e incontri con i protagonisti di questo mondo ancora avvolto dal mistero […]. Si andrà alla scoperta della storia delle comunità religiose con i documenti dell'ordine dei francescani messi a disposizione in Umbria o quelli sulle leggi razziali consultabili nell'archivio di stato di Milano; si ricorderanno i successi imprenditoriali del nostro Paese, con la Olivetti che apre il suo archivio storico a Ivrea. Adesioni e supporto sono arrivati anche dall'estero per questa iniziativa culturale che offre centinaia di eventi che uniscono nord, sud e isole e si concludono con una tavola rotonda il 19 marzo a Roma. Gli archivi sono l'opposto del dimenticare. “Sono eternamente vivi. Memoria palpabile del nostro passato”, ribadisce Camilleri. In un paese dove le stragi degli anni di piombo non hanno colpevoli e la trasparenza dell'Amministrazione pubblica è ancora una chimera, l'archivio resta l'ultima speranza di scrittori, storici, giornalisti, ricercatori. E si fa studiare, proprio da un gruppo di ricercatori italiani a Londra, che hanno ricevuto un finanziamento ERC per approfondire la storia degli archivi italiani. Almeno quelli, per ora, non si muovono. (Tratto da: A. Borella, “Ispirati dagli archivi 2016”. Alla scoperta dei documenti che non ti aspetti, La Repubblica, Cultura, 4 aprile 2016)
B4. Il testo richiama alcuni luoghi comuni sugli archivi e sulle persone che vi lavorano. Indica quali affermazioni, secondo la prospettiva dell'articolo, sono vere e quali false. d) Ciò che è custodito negli archivi non può essere toccato
falso
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vero
falso
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“Ispirati dagli archivi 2016”. Alla scoperta dei documenti che non ti aspetti “Archiviare è uguale a dimenticare. Ecco cosa significa questo verbo nel linguaggio comune, oggi. Eppure, gli archivi sono esattamente l'opposto”. Le parole di Andrea Camilleri, testimonial dell'evento “Ispirati dagli archivi 2016” dal 14 al 19 marzo in tutta Italia, aprono uno spiraglio di luce su quelle pagine preziose che custodiscono la storia del Paese e del suo patrimonio artistico e culturale. Spesso relegate al buio degli scaffali, a quello della segretezza di Stato o, più spesso, solo a quello dell'ignoranza. L'associazione nazionale archivisti italiani (ANAI) promuove una settimana di eventi in tutta Italia per non dimenticare la ricchezza del patrimonio archivistico del nostro Paese e sensibilizzare cittadini e istituzioni sull'importanza della sua tutela. Per alcuni di loro gli archivi pubblici dello Stato, circa ventimila, sono già un bene prezioso, il principale strumento di lavoro e un luogo di inesauribile fascino: storici, giornalisti, ricercatori. L'invito ora è rivolto a tutti, perché gli archivi parlano di ciascuno, essendo la memoria di tutti. Secoli di sapere, vite, storie. “Un'archivista una volta mi ha riferito lo stupore dei bambini di una scolaresca in visita nell'archivio del loro comune, che avevano timore reverenziale nei confronti di tutte quelle pergamene medievali. Le maestre dicevano 'Non toccate, mi raccomando.' Lei invece: 'Toccatele bambini, perché queste carte vi appartengono, fanno parte di voi e della vostra storia'”. A parlare è Augusto Cherchi, vicepresidente dell'ANAI, che ha lanciato il grido d'allarme per la mancanza di risorse, investimenti, politiche di formazione. L'80% degli archivisti italiani ha tra i 55 e i 60 anni. “E non ne rimase nessuno”, con le parole di Agatha Christie, usate dalla stessa associazione per uno slogan di qualche tempo fa. È una sfida per loro, che devono scucirsi di dosso lo stereotipo del “topo d'archivio in un seminterrato tra pagine impolverate e noiose”. “Abbiamo un account Twitter” continua Cherchi “vogliamo impegnarci nella comunicazione, anche se non siamo nativi digitali”. E comunicare che, ad esempio, ci sono gli archivisti liberi professionisti, che fanno i consulenti per le aziende. Quelli che si dedicano al progetto più ambizioso del mondo in termini di digitalizzazione di materiale audiovisivo e multimediale: le Teche Rai. Altri che diventano “mediatori del diritto” nei casi di richieste di oblio. “Quando sono stati pubblicati online i documenti degli iscritti al partito nazionale fascista, scaduti i 70 anni del segreto di Stato, ne abbiamo ricevute tante. Un documento pubblico, se pubblicato in rete, può creare controversie”. Google fa paura. A chi sta dentro alle pagine e a chi le maneggia tutti i giorni, per lavoro, con amore. “Ci vuole fatica per sfogliare i documenti cartacei. Ma in fondo, quella parola che mettiamo nella stringa di Google ci restituisce solo il mondo di Google. Che non è il mondo”, ci tiene a precisare Cherchi. Quante risposte che Google non può darci sono racchiuse tra due fogli, a qualche centinaio di metri da casa, magari nell'archivio del nostro piccolo comune? È la settimana giusta per scoprirlo: saranno giorni di “archivi parlanti”, in una polifonia di mostre, proiezioni e incontri con i protagonisti di questo mondo ancora avvolto dal mistero […]. Si andrà alla scoperta della storia delle comunità religiose con i documenti dell'ordine dei francescani messi a disposizione in Umbria o quelli sulle leggi razziali consultabili nell'archivio di stato di Milano; si ricorderanno i successi imprenditoriali del nostro Paese, con la Olivetti che apre il suo archivio storico a Ivrea. Adesioni e supporto sono arrivati anche dall'estero per questa iniziativa culturale che offre centinaia di eventi che uniscono nord, sud e isole e si concludono con una tavola rotonda il 19 marzo a Roma. Gli archivi sono l'opposto del dimenticare. “Sono eternamente vivi. Memoria palpabile del nostro passato”, ribadisce Camilleri. In un paese dove le stragi degli anni di piombo non hanno colpevoli e la trasparenza dell'Amministrazione pubblica è ancora una chimera, l'archivio resta l'ultima speranza di scrittori, storici, giornalisti, ricercatori. E si fa studiare, proprio da un gruppo di ricercatori italiani a Londra, che hanno ricevuto un finanziamento ERC per approfondire la storia degli archivi italiani. Almeno quelli, per ora, non si muovono. (Tratto da: A. Borella, “Ispirati dagli archivi 2016”. Alla scoperta dei documenti che non ti aspetti, La Repubblica, Cultura, 4 aprile 2016)
B4. Il testo richiama alcuni luoghi comuni sugli archivi e sulle persone che vi lavorano. Indica quali affermazioni, secondo la prospettiva dell'articolo, sono vere e quali false. e) Gli archivi conservano la memoria storica di un paese
vero
['item_240_0.png']
2019_10_SIM_B
binaria
vero
falso
null
“Ispirati dagli archivi 2016”. Alla scoperta dei documenti che non ti aspetti “Archiviare è uguale a dimenticare. Ecco cosa significa questo verbo nel linguaggio comune, oggi. Eppure, gli archivi sono esattamente l'opposto”. Le parole di Andrea Camilleri, testimonial dell'evento “Ispirati dagli archivi 2016” dal 14 al 19 marzo in tutta Italia, aprono uno spiraglio di luce su quelle pagine preziose che custodiscono la storia del Paese e del suo patrimonio artistico e culturale. Spesso relegate al buio degli scaffali, a quello della segretezza di Stato o, più spesso, solo a quello dell'ignoranza. L'associazione nazionale archivisti italiani (ANAI) promuove una settimana di eventi in tutta Italia per non dimenticare la ricchezza del patrimonio archivistico del nostro Paese e sensibilizzare cittadini e istituzioni sull'importanza della sua tutela. Per alcuni di loro gli archivi pubblici dello Stato, circa ventimila, sono già un bene prezioso, il principale strumento di lavoro e un luogo di inesauribile fascino: storici, giornalisti, ricercatori. L'invito ora è rivolto a tutti, perché gli archivi parlano di ciascuno, essendo la memoria di tutti. Secoli di sapere, vite, storie. “Un'archivista una volta mi ha riferito lo stupore dei bambini di una scolaresca in visita nell'archivio del loro comune, che avevano timore reverenziale nei confronti di tutte quelle pergamene medievali. Le maestre dicevano 'Non toccate, mi raccomando.' Lei invece: 'Toccatele bambini, perché queste carte vi appartengono, fanno parte di voi e della vostra storia'”. A parlare è Augusto Cherchi, vicepresidente dell'ANAI, che ha lanciato il grido d'allarme per la mancanza di risorse, investimenti, politiche di formazione. L'80% degli archivisti italiani ha tra i 55 e i 60 anni. “E non ne rimase nessuno”, con le parole di Agatha Christie, usate dalla stessa associazione per uno slogan di qualche tempo fa. È una sfida per loro, che devono scucirsi di dosso lo stereotipo del “topo d'archivio in un seminterrato tra pagine impolverate e noiose”. “Abbiamo un account Twitter” continua Cherchi “vogliamo impegnarci nella comunicazione, anche se non siamo nativi digitali”. E comunicare che, ad esempio, ci sono gli archivisti liberi professionisti, che fanno i consulenti per le aziende. Quelli che si dedicano al progetto più ambizioso del mondo in termini di digitalizzazione di materiale audiovisivo e multimediale: le Teche Rai. Altri che diventano “mediatori del diritto” nei casi di richieste di oblio. “Quando sono stati pubblicati online i documenti degli iscritti al partito nazionale fascista, scaduti i 70 anni del segreto di Stato, ne abbiamo ricevute tante. Un documento pubblico, se pubblicato in rete, può creare controversie”. Google fa paura. A chi sta dentro alle pagine e a chi le maneggia tutti i giorni, per lavoro, con amore. “Ci vuole fatica per sfogliare i documenti cartacei. Ma in fondo, quella parola che mettiamo nella stringa di Google ci restituisce solo il mondo di Google. Che non è il mondo”, ci tiene a precisare Cherchi. Quante risposte che Google non può darci sono racchiuse tra due fogli, a qualche centinaio di metri da casa, magari nell'archivio del nostro piccolo comune? È la settimana giusta per scoprirlo: saranno giorni di “archivi parlanti”, in una polifonia di mostre, proiezioni e incontri con i protagonisti di questo mondo ancora avvolto dal mistero […]. Si andrà alla scoperta della storia delle comunità religiose con i documenti dell'ordine dei francescani messi a disposizione in Umbria o quelli sulle leggi razziali consultabili nell'archivio di stato di Milano; si ricorderanno i successi imprenditoriali del nostro Paese, con la Olivetti che apre il suo archivio storico a Ivrea. Adesioni e supporto sono arrivati anche dall'estero per questa iniziativa culturale che offre centinaia di eventi che uniscono nord, sud e isole e si concludono con una tavola rotonda il 19 marzo a Roma. Gli archivi sono l'opposto del dimenticare. “Sono eternamente vivi. Memoria palpabile del nostro passato”, ribadisce Camilleri. In un paese dove le stragi degli anni di piombo non hanno colpevoli e la trasparenza dell'Amministrazione pubblica è ancora una chimera, l'archivio resta l'ultima speranza di scrittori, storici, giornalisti, ricercatori. E si fa studiare, proprio da un gruppo di ricercatori italiani a Londra, che hanno ricevuto un finanziamento ERC per approfondire la storia degli archivi italiani. Almeno quelli, per ora, non si muovono. (Tratto da: A. Borella, “Ispirati dagli archivi 2016”. Alla scoperta dei documenti che non ti aspetti, La Repubblica, Cultura, 4 aprile 2016)
B4. Il testo richiama alcuni luoghi comuni sugli archivi e sulle persone che vi lavorano. Indica quali affermazioni, secondo la prospettiva dell'articolo, sono vere e quali false. f) Gli archivi digitali non sono come gli archivi tradizionali ma sono da trattare con cura speciale e attenzione
vero
['item_240_0.png']
2019_10_SIM_B
binaria
vero
falso
null
“Ispirati dagli archivi 2016”. Alla scoperta dei documenti che non ti aspetti “Archiviare è uguale a dimenticare. Ecco cosa significa questo verbo nel linguaggio comune, oggi. Eppure, gli archivi sono esattamente l'opposto”. Le parole di Andrea Camilleri, testimonial dell'evento “Ispirati dagli archivi 2016” dal 14 al 19 marzo in tutta Italia, aprono uno spiraglio di luce su quelle pagine preziose che custodiscono la storia del Paese e del suo patrimonio artistico e culturale. Spesso relegate al buio degli scaffali, a quello della segretezza di Stato o, più spesso, solo a quello dell'ignoranza. L'associazione nazionale archivisti italiani (ANAI) promuove una settimana di eventi in tutta Italia per non dimenticare la ricchezza del patrimonio archivistico del nostro Paese e sensibilizzare cittadini e istituzioni sull'importanza della sua tutela. Per alcuni di loro gli archivi pubblici dello Stato, circa ventimila, sono già un bene prezioso, il principale strumento di lavoro e un luogo di inesauribile fascino: storici, giornalisti, ricercatori. L'invito ora è rivolto a tutti, perché gli archivi parlano di ciascuno, essendo la memoria di tutti. Secoli di sapere, vite, storie. “Un'archivista una volta mi ha riferito lo stupore dei bambini di una scolaresca in visita nell'archivio del loro comune, che avevano timore reverenziale nei confronti di tutte quelle pergamene medievali. Le maestre dicevano 'Non toccate, mi raccomando.' Lei invece: 'Toccatele bambini, perché queste carte vi appartengono, fanno parte di voi e della vostra storia'”. A parlare è Augusto Cherchi, vicepresidente dell'ANAI, che ha lanciato il grido d'allarme per la mancanza di risorse, investimenti, politiche di formazione. L'80% degli archivisti italiani ha tra i 55 e i 60 anni. “E non ne rimase nessuno”, con le parole di Agatha Christie, usate dalla stessa associazione per uno slogan di qualche tempo fa. È una sfida per loro, che devono scucirsi di dosso lo stereotipo del “topo d'archivio in un seminterrato tra pagine impolverate e noiose”. “Abbiamo un account Twitter” continua Cherchi “vogliamo impegnarci nella comunicazione, anche se non siamo nativi digitali”. E comunicare che, ad esempio, ci sono gli archivisti liberi professionisti, che fanno i consulenti per le aziende. Quelli che si dedicano al progetto più ambizioso del mondo in termini di digitalizzazione di materiale audiovisivo e multimediale: le Teche Rai. Altri che diventano “mediatori del diritto” nei casi di richieste di oblio. “Quando sono stati pubblicati online i documenti degli iscritti al partito nazionale fascista, scaduti i 70 anni del segreto di Stato, ne abbiamo ricevute tante. Un documento pubblico, se pubblicato in rete, può creare controversie”. Google fa paura. A chi sta dentro alle pagine e a chi le maneggia tutti i giorni, per lavoro, con amore. “Ci vuole fatica per sfogliare i documenti cartacei. Ma in fondo, quella parola che mettiamo nella stringa di Google ci restituisce solo il mondo di Google. Che non è il mondo”, ci tiene a precisare Cherchi. Quante risposte che Google non può darci sono racchiuse tra due fogli, a qualche centinaio di metri da casa, magari nell'archivio del nostro piccolo comune? È la settimana giusta per scoprirlo: saranno giorni di “archivi parlanti”, in una polifonia di mostre, proiezioni e incontri con i protagonisti di questo mondo ancora avvolto dal mistero […]. Si andrà alla scoperta della storia delle comunità religiose con i documenti dell'ordine dei francescani messi a disposizione in Umbria o quelli sulle leggi razziali consultabili nell'archivio di stato di Milano; si ricorderanno i successi imprenditoriali del nostro Paese, con la Olivetti che apre il suo archivio storico a Ivrea. Adesioni e supporto sono arrivati anche dall'estero per questa iniziativa culturale che offre centinaia di eventi che uniscono nord, sud e isole e si concludono con una tavola rotonda il 19 marzo a Roma. Gli archivi sono l'opposto del dimenticare. “Sono eternamente vivi. Memoria palpabile del nostro passato”, ribadisce Camilleri. In un paese dove le stragi degli anni di piombo non hanno colpevoli e la trasparenza dell'Amministrazione pubblica è ancora una chimera, l'archivio resta l'ultima speranza di scrittori, storici, giornalisti, ricercatori. E si fa studiare, proprio da un gruppo di ricercatori italiani a Londra, che hanno ricevuto un finanziamento ERC per approfondire la storia degli archivi italiani. Almeno quelli, per ora, non si muovono. (Tratto da: A. Borella, “Ispirati dagli archivi 2016”. Alla scoperta dei documenti che non ti aspetti, La Repubblica, Cultura, 4 aprile 2016)
B6. Quali sono, secondo l'articolo, i fattori che mettono a rischio l'esistenza degli archivi in Italia? a) Il disinteresse generale per qualcosa che non è ritenuto utile
mette a rischio
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binaria
mette a rischio
non mette a rischio
null
“Ispirati dagli archivi 2016”. Alla scoperta dei documenti che non ti aspetti “Archiviare è uguale a dimenticare. Ecco cosa significa questo verbo nel linguaggio comune, oggi. Eppure, gli archivi sono esattamente l'opposto”. Le parole di Andrea Camilleri, testimonial dell'evento “Ispirati dagli archivi 2016” dal 14 al 19 marzo in tutta Italia, aprono uno spiraglio di luce su quelle pagine preziose che custodiscono la storia del Paese e del suo patrimonio artistico e culturale. Spesso relegate al buio degli scaffali, a quello della segretezza di Stato o, più spesso, solo a quello dell'ignoranza. L'associazione nazionale archivisti italiani (ANAI) promuove una settimana di eventi in tutta Italia per non dimenticare la ricchezza del patrimonio archivistico del nostro Paese e sensibilizzare cittadini e istituzioni sull'importanza della sua tutela. Per alcuni di loro gli archivi pubblici dello Stato, circa ventimila, sono già un bene prezioso, il principale strumento di lavoro e un luogo di inesauribile fascino: storici, giornalisti, ricercatori. L'invito ora è rivolto a tutti, perché gli archivi parlano di ciascuno, essendo la memoria di tutti. Secoli di sapere, vite, storie. “Un'archivista una volta mi ha riferito lo stupore dei bambini di una scolaresca in visita nell'archivio del loro comune, che avevano timore reverenziale nei confronti di tutte quelle pergamene medievali. Le maestre dicevano 'Non toccate, mi raccomando.' Lei invece: 'Toccatele bambini, perché queste carte vi appartengono, fanno parte di voi e della vostra storia'”. A parlare è Augusto Cherchi, vicepresidente dell'ANAI, che ha lanciato il grido d'allarme per la mancanza di risorse, investimenti, politiche di formazione. L'80% degli archivisti italiani ha tra i 55 e i 60 anni. “E non ne rimase nessuno”, con le parole di Agatha Christie, usate dalla stessa associazione per uno slogan di qualche tempo fa. È una sfida per loro, che devono scucirsi di dosso lo stereotipo del “topo d'archivio in un seminterrato tra pagine impolverate e noiose”. “Abbiamo un account Twitter” continua Cherchi “vogliamo impegnarci nella comunicazione, anche se non siamo nativi digitali”. E comunicare che, ad esempio, ci sono gli archivisti liberi professionisti, che fanno i consulenti per le aziende. Quelli che si dedicano al progetto più ambizioso del mondo in termini di digitalizzazione di materiale audiovisivo e multimediale: le Teche Rai. Altri che diventano “mediatori del diritto” nei casi di richieste di oblio. “Quando sono stati pubblicati online i documenti degli iscritti al partito nazionale fascista, scaduti i 70 anni del segreto di Stato, ne abbiamo ricevute tante. Un documento pubblico, se pubblicato in rete, può creare controversie”. Google fa paura. A chi sta dentro alle pagine e a chi le maneggia tutti i giorni, per lavoro, con amore. “Ci vuole fatica per sfogliare i documenti cartacei. Ma in fondo, quella parola che mettiamo nella stringa di Google ci restituisce solo il mondo di Google. Che non è il mondo”, ci tiene a precisare Cherchi. Quante risposte che Google non può darci sono racchiuse tra due fogli, a qualche centinaio di metri da casa, magari nell'archivio del nostro piccolo comune? È la settimana giusta per scoprirlo: saranno giorni di “archivi parlanti”, in una polifonia di mostre, proiezioni e incontri con i protagonisti di questo mondo ancora avvolto dal mistero […]. Si andrà alla scoperta della storia delle comunità religiose con i documenti dell'ordine dei francescani messi a disposizione in Umbria o quelli sulle leggi razziali consultabili nell'archivio di stato di Milano; si ricorderanno i successi imprenditoriali del nostro Paese, con la Olivetti che apre il suo archivio storico a Ivrea. Adesioni e supporto sono arrivati anche dall'estero per questa iniziativa culturale che offre centinaia di eventi che uniscono nord, sud e isole e si concludono con una tavola rotonda il 19 marzo a Roma. Gli archivi sono l'opposto del dimenticare. “Sono eternamente vivi. Memoria palpabile del nostro passato”, ribadisce Camilleri. In un paese dove le stragi degli anni di piombo non hanno colpevoli e la trasparenza dell'Amministrazione pubblica è ancora una chimera, l'archivio resta l'ultima speranza di scrittori, storici, giornalisti, ricercatori. E si fa studiare, proprio da un gruppo di ricercatori italiani a Londra, che hanno ricevuto un finanziamento ERC per approfondire la storia degli archivi italiani. Almeno quelli, per ora, non si muovono. (Tratto da: A. Borella, “Ispirati dagli archivi 2016”. Alla scoperta dei documenti che non ti aspetti, La Repubblica, Cultura, 4 aprile 2016)
B6. Quali sono, secondo l'articolo, i fattori che mettono a rischio l'esistenza degli archivi in Italia? b) La diffusione dei computer e di altri strumentiinformatici
non mette a rischio
['item_242_0.png']
2019_10_SIM_B
binaria
mette a rischio
non mette a rischio
null
“Ispirati dagli archivi 2016”. Alla scoperta dei documenti che non ti aspetti “Archiviare è uguale a dimenticare. Ecco cosa significa questo verbo nel linguaggio comune, oggi. Eppure, gli archivi sono esattamente l'opposto”. Le parole di Andrea Camilleri, testimonial dell'evento “Ispirati dagli archivi 2016” dal 14 al 19 marzo in tutta Italia, aprono uno spiraglio di luce su quelle pagine preziose che custodiscono la storia del Paese e del suo patrimonio artistico e culturale. Spesso relegate al buio degli scaffali, a quello della segretezza di Stato o, più spesso, solo a quello dell'ignoranza. L'associazione nazionale archivisti italiani (ANAI) promuove una settimana di eventi in tutta Italia per non dimenticare la ricchezza del patrimonio archivistico del nostro Paese e sensibilizzare cittadini e istituzioni sull'importanza della sua tutela. Per alcuni di loro gli archivi pubblici dello Stato, circa ventimila, sono già un bene prezioso, il principale strumento di lavoro e un luogo di inesauribile fascino: storici, giornalisti, ricercatori. L'invito ora è rivolto a tutti, perché gli archivi parlano di ciascuno, essendo la memoria di tutti. Secoli di sapere, vite, storie. “Un'archivista una volta mi ha riferito lo stupore dei bambini di una scolaresca in visita nell'archivio del loro comune, che avevano timore reverenziale nei confronti di tutte quelle pergamene medievali. Le maestre dicevano 'Non toccate, mi raccomando.' Lei invece: 'Toccatele bambini, perché queste carte vi appartengono, fanno parte di voi e della vostra storia'”. A parlare è Augusto Cherchi, vicepresidente dell'ANAI, che ha lanciato il grido d'allarme per la mancanza di risorse, investimenti, politiche di formazione. L'80% degli archivisti italiani ha tra i 55 e i 60 anni. “E non ne rimase nessuno”, con le parole di Agatha Christie, usate dalla stessa associazione per uno slogan di qualche tempo fa. È una sfida per loro, che devono scucirsi di dosso lo stereotipo del “topo d'archivio in un seminterrato tra pagine impolverate e noiose”. “Abbiamo un account Twitter” continua Cherchi “vogliamo impegnarci nella comunicazione, anche se non siamo nativi digitali”. E comunicare che, ad esempio, ci sono gli archivisti liberi professionisti, che fanno i consulenti per le aziende. Quelli che si dedicano al progetto più ambizioso del mondo in termini di digitalizzazione di materiale audiovisivo e multimediale: le Teche Rai. Altri che diventano “mediatori del diritto” nei casi di richieste di oblio. “Quando sono stati pubblicati online i documenti degli iscritti al partito nazionale fascista, scaduti i 70 anni del segreto di Stato, ne abbiamo ricevute tante. Un documento pubblico, se pubblicato in rete, può creare controversie”. Google fa paura. A chi sta dentro alle pagine e a chi le maneggia tutti i giorni, per lavoro, con amore. “Ci vuole fatica per sfogliare i documenti cartacei. Ma in fondo, quella parola che mettiamo nella stringa di Google ci restituisce solo il mondo di Google. Che non è il mondo”, ci tiene a precisare Cherchi. Quante risposte che Google non può darci sono racchiuse tra due fogli, a qualche centinaio di metri da casa, magari nell'archivio del nostro piccolo comune? È la settimana giusta per scoprirlo: saranno giorni di “archivi parlanti”, in una polifonia di mostre, proiezioni e incontri con i protagonisti di questo mondo ancora avvolto dal mistero […]. Si andrà alla scoperta della storia delle comunità religiose con i documenti dell'ordine dei francescani messi a disposizione in Umbria o quelli sulle leggi razziali consultabili nell'archivio di stato di Milano; si ricorderanno i successi imprenditoriali del nostro Paese, con la Olivetti che apre il suo archivio storico a Ivrea. Adesioni e supporto sono arrivati anche dall'estero per questa iniziativa culturale che offre centinaia di eventi che uniscono nord, sud e isole e si concludono con una tavola rotonda il 19 marzo a Roma. Gli archivi sono l'opposto del dimenticare. “Sono eternamente vivi. Memoria palpabile del nostro passato”, ribadisce Camilleri. In un paese dove le stragi degli anni di piombo non hanno colpevoli e la trasparenza dell'Amministrazione pubblica è ancora una chimera, l'archivio resta l'ultima speranza di scrittori, storici, giornalisti, ricercatori. E si fa studiare, proprio da un gruppo di ricercatori italiani a Londra, che hanno ricevuto un finanziamento ERC per approfondire la storia degli archivi italiani. Almeno quelli, per ora, non si muovono. (Tratto da: A. Borella, “Ispirati dagli archivi 2016”. Alla scoperta dei documenti che non ti aspetti, La Repubblica, Cultura, 4 aprile 2016)
B6. Quali sono, secondo l'articolo, i fattori che mettono a rischio l'esistenza degli archivi in Italia? c) L’età avanzata della maggior parte degli archivisti
mette a rischio
['item_242_0.png']
2019_10_SIM_B
binaria
mette a rischio
non mette a rischio
null
“Ispirati dagli archivi 2016”. Alla scoperta dei documenti che non ti aspetti “Archiviare è uguale a dimenticare. Ecco cosa significa questo verbo nel linguaggio comune, oggi. Eppure, gli archivi sono esattamente l'opposto”. Le parole di Andrea Camilleri, testimonial dell'evento “Ispirati dagli archivi 2016” dal 14 al 19 marzo in tutta Italia, aprono uno spiraglio di luce su quelle pagine preziose che custodiscono la storia del Paese e del suo patrimonio artistico e culturale. Spesso relegate al buio degli scaffali, a quello della segretezza di Stato o, più spesso, solo a quello dell'ignoranza. L'associazione nazionale archivisti italiani (ANAI) promuove una settimana di eventi in tutta Italia per non dimenticare la ricchezza del patrimonio archivistico del nostro Paese e sensibilizzare cittadini e istituzioni sull'importanza della sua tutela. Per alcuni di loro gli archivi pubblici dello Stato, circa ventimila, sono già un bene prezioso, il principale strumento di lavoro e un luogo di inesauribile fascino: storici, giornalisti, ricercatori. L'invito ora è rivolto a tutti, perché gli archivi parlano di ciascuno, essendo la memoria di tutti. Secoli di sapere, vite, storie. “Un'archivista una volta mi ha riferito lo stupore dei bambini di una scolaresca in visita nell'archivio del loro comune, che avevano timore reverenziale nei confronti di tutte quelle pergamene medievali. Le maestre dicevano 'Non toccate, mi raccomando.' Lei invece: 'Toccatele bambini, perché queste carte vi appartengono, fanno parte di voi e della vostra storia'”. A parlare è Augusto Cherchi, vicepresidente dell'ANAI, che ha lanciato il grido d'allarme per la mancanza di risorse, investimenti, politiche di formazione. L'80% degli archivisti italiani ha tra i 55 e i 60 anni. “E non ne rimase nessuno”, con le parole di Agatha Christie, usate dalla stessa associazione per uno slogan di qualche tempo fa. È una sfida per loro, che devono scucirsi di dosso lo stereotipo del “topo d'archivio in un seminterrato tra pagine impolverate e noiose”. “Abbiamo un account Twitter” continua Cherchi “vogliamo impegnarci nella comunicazione, anche se non siamo nativi digitali”. E comunicare che, ad esempio, ci sono gli archivisti liberi professionisti, che fanno i consulenti per le aziende. Quelli che si dedicano al progetto più ambizioso del mondo in termini di digitalizzazione di materiale audiovisivo e multimediale: le Teche Rai. Altri che diventano “mediatori del diritto” nei casi di richieste di oblio. “Quando sono stati pubblicati online i documenti degli iscritti al partito nazionale fascista, scaduti i 70 anni del segreto di Stato, ne abbiamo ricevute tante. Un documento pubblico, se pubblicato in rete, può creare controversie”. Google fa paura. A chi sta dentro alle pagine e a chi le maneggia tutti i giorni, per lavoro, con amore. “Ci vuole fatica per sfogliare i documenti cartacei. Ma in fondo, quella parola che mettiamo nella stringa di Google ci restituisce solo il mondo di Google. Che non è il mondo”, ci tiene a precisare Cherchi. Quante risposte che Google non può darci sono racchiuse tra due fogli, a qualche centinaio di metri da casa, magari nell'archivio del nostro piccolo comune? È la settimana giusta per scoprirlo: saranno giorni di “archivi parlanti”, in una polifonia di mostre, proiezioni e incontri con i protagonisti di questo mondo ancora avvolto dal mistero […]. Si andrà alla scoperta della storia delle comunità religiose con i documenti dell'ordine dei francescani messi a disposizione in Umbria o quelli sulle leggi razziali consultabili nell'archivio di stato di Milano; si ricorderanno i successi imprenditoriali del nostro Paese, con la Olivetti che apre il suo archivio storico a Ivrea. Adesioni e supporto sono arrivati anche dall'estero per questa iniziativa culturale che offre centinaia di eventi che uniscono nord, sud e isole e si concludono con una tavola rotonda il 19 marzo a Roma. Gli archivi sono l'opposto del dimenticare. “Sono eternamente vivi. Memoria palpabile del nostro passato”, ribadisce Camilleri. In un paese dove le stragi degli anni di piombo non hanno colpevoli e la trasparenza dell'Amministrazione pubblica è ancora una chimera, l'archivio resta l'ultima speranza di scrittori, storici, giornalisti, ricercatori. E si fa studiare, proprio da un gruppo di ricercatori italiani a Londra, che hanno ricevuto un finanziamento ERC per approfondire la storia degli archivi italiani. Almeno quelli, per ora, non si muovono. (Tratto da: A. Borella, “Ispirati dagli archivi 2016”. Alla scoperta dei documenti che non ti aspetti, La Repubblica, Cultura, 4 aprile 2016)
B6. Quali sono, secondo l'articolo, i fattori che mettono a rischio l'esistenza degli archivi in Italia? d) L’attività di esperti che lavorano all’estero
non mette a rischio
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2019_10_SIM_B
binaria
mette a rischio
non mette a rischio
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“Ispirati dagli archivi 2016”. Alla scoperta dei documenti che non ti aspetti “Archiviare è uguale a dimenticare. Ecco cosa significa questo verbo nel linguaggio comune, oggi. Eppure, gli archivi sono esattamente l'opposto”. Le parole di Andrea Camilleri, testimonial dell'evento “Ispirati dagli archivi 2016” dal 14 al 19 marzo in tutta Italia, aprono uno spiraglio di luce su quelle pagine preziose che custodiscono la storia del Paese e del suo patrimonio artistico e culturale. Spesso relegate al buio degli scaffali, a quello della segretezza di Stato o, più spesso, solo a quello dell'ignoranza. L'associazione nazionale archivisti italiani (ANAI) promuove una settimana di eventi in tutta Italia per non dimenticare la ricchezza del patrimonio archivistico del nostro Paese e sensibilizzare cittadini e istituzioni sull'importanza della sua tutela. Per alcuni di loro gli archivi pubblici dello Stato, circa ventimila, sono già un bene prezioso, il principale strumento di lavoro e un luogo di inesauribile fascino: storici, giornalisti, ricercatori. L'invito ora è rivolto a tutti, perché gli archivi parlano di ciascuno, essendo la memoria di tutti. Secoli di sapere, vite, storie. “Un'archivista una volta mi ha riferito lo stupore dei bambini di una scolaresca in visita nell'archivio del loro comune, che avevano timore reverenziale nei confronti di tutte quelle pergamene medievali. Le maestre dicevano 'Non toccate, mi raccomando.' Lei invece: 'Toccatele bambini, perché queste carte vi appartengono, fanno parte di voi e della vostra storia'”. A parlare è Augusto Cherchi, vicepresidente dell'ANAI, che ha lanciato il grido d'allarme per la mancanza di risorse, investimenti, politiche di formazione. L'80% degli archivisti italiani ha tra i 55 e i 60 anni. “E non ne rimase nessuno”, con le parole di Agatha Christie, usate dalla stessa associazione per uno slogan di qualche tempo fa. È una sfida per loro, che devono scucirsi di dosso lo stereotipo del “topo d'archivio in un seminterrato tra pagine impolverate e noiose”. “Abbiamo un account Twitter” continua Cherchi “vogliamo impegnarci nella comunicazione, anche se non siamo nativi digitali”. E comunicare che, ad esempio, ci sono gli archivisti liberi professionisti, che fanno i consulenti per le aziende. Quelli che si dedicano al progetto più ambizioso del mondo in termini di digitalizzazione di materiale audiovisivo e multimediale: le Teche Rai. Altri che diventano “mediatori del diritto” nei casi di richieste di oblio. “Quando sono stati pubblicati online i documenti degli iscritti al partito nazionale fascista, scaduti i 70 anni del segreto di Stato, ne abbiamo ricevute tante. Un documento pubblico, se pubblicato in rete, può creare controversie”. Google fa paura. A chi sta dentro alle pagine e a chi le maneggia tutti i giorni, per lavoro, con amore. “Ci vuole fatica per sfogliare i documenti cartacei. Ma in fondo, quella parola che mettiamo nella stringa di Google ci restituisce solo il mondo di Google. Che non è il mondo”, ci tiene a precisare Cherchi. Quante risposte che Google non può darci sono racchiuse tra due fogli, a qualche centinaio di metri da casa, magari nell'archivio del nostro piccolo comune? È la settimana giusta per scoprirlo: saranno giorni di “archivi parlanti”, in una polifonia di mostre, proiezioni e incontri con i protagonisti di questo mondo ancora avvolto dal mistero […]. Si andrà alla scoperta della storia delle comunità religiose con i documenti dell'ordine dei francescani messi a disposizione in Umbria o quelli sulle leggi razziali consultabili nell'archivio di stato di Milano; si ricorderanno i successi imprenditoriali del nostro Paese, con la Olivetti che apre il suo archivio storico a Ivrea. Adesioni e supporto sono arrivati anche dall'estero per questa iniziativa culturale che offre centinaia di eventi che uniscono nord, sud e isole e si concludono con una tavola rotonda il 19 marzo a Roma. Gli archivi sono l'opposto del dimenticare. “Sono eternamente vivi. Memoria palpabile del nostro passato”, ribadisce Camilleri. In un paese dove le stragi degli anni di piombo non hanno colpevoli e la trasparenza dell'Amministrazione pubblica è ancora una chimera, l'archivio resta l'ultima speranza di scrittori, storici, giornalisti, ricercatori. E si fa studiare, proprio da un gruppo di ricercatori italiani a Londra, che hanno ricevuto un finanziamento ERC per approfondire la storia degli archivi italiani. Almeno quelli, per ora, non si muovono. (Tratto da: A. Borella, “Ispirati dagli archivi 2016”. Alla scoperta dei documenti che non ti aspetti, La Repubblica, Cultura, 4 aprile 2016)
B6. Quali sono, secondo l'articolo, i fattori che mettono a rischio l'esistenza degli archivi in Italia? e) Pensare che “Archiviare è uguale a dimenticare”
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mette a rischio
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Immagine familiare di guerra Mia madre scende dal marcia piedi con la minore delle mie sorelle. Sta per attraversare la piazza del Popolo, ha una borsa sotto il braccio, un cappotto scuro di taglio militare. È robusta, solida, irriconoscibile rispetto alla piccola gracile donna della mia infanzia, e all’anziana signora di dopo la pensione, tutta nervi, impalpabile quasi nella sensibilità che la fa sussultare ad ogni rumore. Qui il volto è teso, duro, pieno d’ombre; dietro affissa al muro, una striscia di carta, la pubblicità d’un giornale: Secolo XIX. Con la tensione cupa di mia madre, contrasta la figuretta di mia sorella appena treenne, con un cappottino di pelliccia di gatto e un cappuccetto che la fa assomigliare a un folletto di bosco; è biondina e trotterellante, per mano a mia madre, ma un passo dietro, quasi trainata su una strada che sembra percorra malvolentieri. Forse vorrebbe andare al Pincio o a Villa Borghese, a giocare, non sa che non si gioca, che è pericoloso anche andare in strada, non sa che una schiera di quegli uomini vestiti di verde che parlano una lingua sconosciuta potrebbero bloccare all’improvviso le strade e urlare e caricare tutti su un camion, colpendo gli attardati con il calcio del fucile. Ha grandi occhi ingenui; non ha mai veduto, e forse non vedrà mai, la foto di un altro bambino, ebreo, con le mani alzate e i neri occhi sgranati davanti al mitra di uno di quegli uomini con l’elmetto in testa e una smorfia di belva tranquilla in viso. La stretta di mia madre la guida verso la casa, la penombra, la sicurezza, non verso i giochi pericolosi del sole e dei bambini. Mia madre la protegge con un’espressione in volto di concentrato timore rovesciato in decisione. Chissà se quegli anni rivivono nella mente delle mie sorelle, o sono passati come un sogno nella loro lieve coscienza. Non hanno ricevuto danni personali dalla guerra, forse essa è passata come una nuvola nera, come uno scoppio di tuoni sulle loro testoline di creature. Mia madre invece la guerra l’ha passata tutta combattendo nella sua trincea, prima nelle cantine - rifugio, poi correndo agli allarmi aerei con tutti noi verso il tunnel della Roma-Nord, poi partendo per il suo lavoro di maestra alle sei del mattino alla volta di Sant’Oreste, per cinque ore di lezione nelle gelide aule del palazzo del Vignola, pranzo portato in borsa e una minestra calda nell’Osteria degli Scarponi, poi due ore di attesa nel fumo dell’osteria o nella tramontana della valle del Tevere, la corriera, il ritorno in treno alle quindici e trenta, a Roma, e ancora a fare la misera spesa per la cena, e l’oscuramento, la breve notte, e alle sei del mattino di nuovo in piedi. Stremata, s’era infine stabilita con la minore delle sorelle a Sant’Oreste, mentre la maggiore era presso gli zii. Quegli anni senza requie, con poco denaro e pochi cibi, di corse, di patemi, di orrori visti o risaputi, avrebbero potuto spezzarla, con quell’accenno di male ai polmoni che aveva avuto da giovane, e invece la fecero rifiorire, senza la grazia dei fiori, ma con la durezza dei cardi. Non so dove fossi io, al tempo della foto, forse in montagna, forse chiuso in qualche casa, o forse libero e guardingo come un gatto selvatico. Mio padre era sempre in viaggio, con i suoi trasporti, e una volta gli mitragliarono anche il camion che s’incendiò e lui si salvò buttandosi in un prato. Portava sempre qualcosa del carico: lo pagavano in natura; una volta un prosciutto, che lui tagliava a tavola tenendolo come un violino, una volta una latta piena di miele, un’altra volta cinquanta bottiglie di cognac che mettemmo sotto la mia branda, e bevevamo a tavola come vino, senza ubriacarci, malgrado pochi bocconi che mandavamo giù. La guerra ci ha torturato lentamente, ma non ci ha colpito come tanti altri. Siamo sempre riusciti a scampare, a sopravvivere. Ne è segno, non eroico, non funebre o epico, non disperato, ma aspramente prosaico, quotidianamente ribattuto nel ferro di una resistenza isolata, questa foto con la mia piccola sorella che mi sembra addolcire il buio dei volti dei passanti e le labbra tirate di mia madre, mentre un fotografo ambulante, un eroe anche lui della giornata sottratta alla fame e alla morte, inquadrava nel pacifico mirino della sua macchina un autentico e per me rivelatore documento di guerra. (Luca Canali, 1980, Il sorriso di Giulia, Pordenone: Editori Riuniti, pp. 95-98)
A1. Nel testo il personaggio della sorella minore è presentato attraverso l’uso di diminutivi e vezzeggiativi (evidenziati nel testo). Questa scelta stilistica ha l’effetto di a) sottolineare la sua fragilità fisica e emotiva - sì/no
si
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Immagine familiare di guerra Mia madre scende dal marcia piedi con la minore delle mie sorelle. Sta per attraversare la piazza del Popolo, ha una borsa sotto il braccio, un cappotto scuro di taglio militare. È robusta, solida, irriconoscibile rispetto alla piccola gracile donna della mia infanzia, e all’anziana signora di dopo la pensione, tutta nervi, impalpabile quasi nella sensibilità che la fa sussultare ad ogni rumore. Qui il volto è teso, duro, pieno d’ombre; dietro affissa al muro, una striscia di carta, la pubblicità d’un giornale: Secolo XIX. Con la tensione cupa di mia madre, contrasta la figuretta di mia sorella appena treenne, con un cappottino di pelliccia di gatto e un cappuccetto che la fa assomigliare a un folletto di bosco; è biondina e trotterellante, per mano a mia madre, ma un passo dietro, quasi trainata su una strada che sembra percorra malvolentieri. Forse vorrebbe andare al Pincio o a Villa Borghese, a giocare, non sa che non si gioca, che è pericoloso anche andare in strada, non sa che una schiera di quegli uomini vestiti di verde che parlano una lingua sconosciuta potrebbero bloccare all’improvviso le strade e urlare e caricare tutti su un camion, colpendo gli attardati con il calcio del fucile. Ha grandi occhi ingenui; non ha mai veduto, e forse non vedrà mai, la foto di un altro bambino, ebreo, con le mani alzate e i neri occhi sgranati davanti al mitra di uno di quegli uomini con l’elmetto in testa e una smorfia di belva tranquilla in viso. La stretta di mia madre la guida verso la casa, la penombra, la sicurezza, non verso i giochi pericolosi del sole e dei bambini. Mia madre la protegge con un’espressione in volto di concentrato timore rovesciato in decisione. Chissà se quegli anni rivivono nella mente delle mie sorelle, o sono passati come un sogno nella loro lieve coscienza. Non hanno ricevuto danni personali dalla guerra, forse essa è passata come una nuvola nera, come uno scoppio di tuoni sulle loro testoline di creature. Mia madre invece la guerra l’ha passata tutta combattendo nella sua trincea, prima nelle cantine - rifugio, poi correndo agli allarmi aerei con tutti noi verso il tunnel della Roma-Nord, poi partendo per il suo lavoro di maestra alle sei del mattino alla volta di Sant’Oreste, per cinque ore di lezione nelle gelide aule del palazzo del Vignola, pranzo portato in borsa e una minestra calda nell’Osteria degli Scarponi, poi due ore di attesa nel fumo dell’osteria o nella tramontana della valle del Tevere, la corriera, il ritorno in treno alle quindici e trenta, a Roma, e ancora a fare la misera spesa per la cena, e l’oscuramento, la breve notte, e alle sei del mattino di nuovo in piedi. Stremata, s’era infine stabilita con la minore delle sorelle a Sant’Oreste, mentre la maggiore era presso gli zii. Quegli anni senza requie, con poco denaro e pochi cibi, di corse, di patemi, di orrori visti o risaputi, avrebbero potuto spezzarla, con quell’accenno di male ai polmoni che aveva avuto da giovane, e invece la fecero rifiorire, senza la grazia dei fiori, ma con la durezza dei cardi. Non so dove fossi io, al tempo della foto, forse in montagna, forse chiuso in qualche casa, o forse libero e guardingo come un gatto selvatico. Mio padre era sempre in viaggio, con i suoi trasporti, e una volta gli mitragliarono anche il camion che s’incendiò e lui si salvò buttandosi in un prato. Portava sempre qualcosa del carico: lo pagavano in natura; una volta un prosciutto, che lui tagliava a tavola tenendolo come un violino, una volta una latta piena di miele, un’altra volta cinquanta bottiglie di cognac che mettemmo sotto la mia branda, e bevevamo a tavola come vino, senza ubriacarci, malgrado pochi bocconi che mandavamo giù. La guerra ci ha torturato lentamente, ma non ci ha colpito come tanti altri. Siamo sempre riusciti a scampare, a sopravvivere. Ne è segno, non eroico, non funebre o epico, non disperato, ma aspramente prosaico, quotidianamente ribattuto nel ferro di una resistenza isolata, questa foto con la mia piccola sorella che mi sembra addolcire il buio dei volti dei passanti e le labbra tirate di mia madre, mentre un fotografo ambulante, un eroe anche lui della giornata sottratta alla fame e alla morte, inquadrava nel pacifico mirino della sua macchina un autentico e per me rivelatore documento di guerra. (Luca Canali, 1980, Il sorriso di Giulia, Pordenone: Editori Riuniti, pp. 95-98)
A1. Nel testo il personaggio della sorella minore è presentato attraverso l’uso di diminutivi e vezzeggiativi (evidenziati nel testo). Questa scelta stilistica ha l’effetto di b) sottolineare l’eleganza dell’abbigliamento - sì/no
no
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binaria
si
no
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Immagine familiare di guerra Mia madre scende dal marcia piedi con la minore delle mie sorelle. Sta per attraversare la piazza del Popolo, ha una borsa sotto il braccio, un cappotto scuro di taglio militare. È robusta, solida, irriconoscibile rispetto alla piccola gracile donna della mia infanzia, e all’anziana signora di dopo la pensione, tutta nervi, impalpabile quasi nella sensibilità che la fa sussultare ad ogni rumore. Qui il volto è teso, duro, pieno d’ombre; dietro affissa al muro, una striscia di carta, la pubblicità d’un giornale: Secolo XIX. Con la tensione cupa di mia madre, contrasta la figuretta di mia sorella appena treenne, con un cappottino di pelliccia di gatto e un cappuccetto che la fa assomigliare a un folletto di bosco; è biondina e trotterellante, per mano a mia madre, ma un passo dietro, quasi trainata su una strada che sembra percorra malvolentieri. Forse vorrebbe andare al Pincio o a Villa Borghese, a giocare, non sa che non si gioca, che è pericoloso anche andare in strada, non sa che una schiera di quegli uomini vestiti di verde che parlano una lingua sconosciuta potrebbero bloccare all’improvviso le strade e urlare e caricare tutti su un camion, colpendo gli attardati con il calcio del fucile. Ha grandi occhi ingenui; non ha mai veduto, e forse non vedrà mai, la foto di un altro bambino, ebreo, con le mani alzate e i neri occhi sgranati davanti al mitra di uno di quegli uomini con l’elmetto in testa e una smorfia di belva tranquilla in viso. La stretta di mia madre la guida verso la casa, la penombra, la sicurezza, non verso i giochi pericolosi del sole e dei bambini. Mia madre la protegge con un’espressione in volto di concentrato timore rovesciato in decisione. Chissà se quegli anni rivivono nella mente delle mie sorelle, o sono passati come un sogno nella loro lieve coscienza. Non hanno ricevuto danni personali dalla guerra, forse essa è passata come una nuvola nera, come uno scoppio di tuoni sulle loro testoline di creature. Mia madre invece la guerra l’ha passata tutta combattendo nella sua trincea, prima nelle cantine - rifugio, poi correndo agli allarmi aerei con tutti noi verso il tunnel della Roma-Nord, poi partendo per il suo lavoro di maestra alle sei del mattino alla volta di Sant’Oreste, per cinque ore di lezione nelle gelide aule del palazzo del Vignola, pranzo portato in borsa e una minestra calda nell’Osteria degli Scarponi, poi due ore di attesa nel fumo dell’osteria o nella tramontana della valle del Tevere, la corriera, il ritorno in treno alle quindici e trenta, a Roma, e ancora a fare la misera spesa per la cena, e l’oscuramento, la breve notte, e alle sei del mattino di nuovo in piedi. Stremata, s’era infine stabilita con la minore delle sorelle a Sant’Oreste, mentre la maggiore era presso gli zii. Quegli anni senza requie, con poco denaro e pochi cibi, di corse, di patemi, di orrori visti o risaputi, avrebbero potuto spezzarla, con quell’accenno di male ai polmoni che aveva avuto da giovane, e invece la fecero rifiorire, senza la grazia dei fiori, ma con la durezza dei cardi. Non so dove fossi io, al tempo della foto, forse in montagna, forse chiuso in qualche casa, o forse libero e guardingo come un gatto selvatico. Mio padre era sempre in viaggio, con i suoi trasporti, e una volta gli mitragliarono anche il camion che s’incendiò e lui si salvò buttandosi in un prato. Portava sempre qualcosa del carico: lo pagavano in natura; una volta un prosciutto, che lui tagliava a tavola tenendolo come un violino, una volta una latta piena di miele, un’altra volta cinquanta bottiglie di cognac che mettemmo sotto la mia branda, e bevevamo a tavola come vino, senza ubriacarci, malgrado pochi bocconi che mandavamo giù. La guerra ci ha torturato lentamente, ma non ci ha colpito come tanti altri. Siamo sempre riusciti a scampare, a sopravvivere. Ne è segno, non eroico, non funebre o epico, non disperato, ma aspramente prosaico, quotidianamente ribattuto nel ferro di una resistenza isolata, questa foto con la mia piccola sorella che mi sembra addolcire il buio dei volti dei passanti e le labbra tirate di mia madre, mentre un fotografo ambulante, un eroe anche lui della giornata sottratta alla fame e alla morte, inquadrava nel pacifico mirino della sua macchina un autentico e per me rivelatore documento di guerra. (Luca Canali, 1980, Il sorriso di Giulia, Pordenone: Editori Riuniti, pp. 95-98)
A1. Nel testo il personaggio della sorella minore è presentato attraverso l’uso di diminutivi e vezzeggiativi (evidenziati nel testo). Questa scelta stilistica ha l’effetto di c) accentuare il contrasto fra la sua ingenua incoscienza e la consapevolezza della madre - sì/no
si
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Immagine familiare di guerra Mia madre scende dal marcia piedi con la minore delle mie sorelle. Sta per attraversare la piazza del Popolo, ha una borsa sotto il braccio, un cappotto scuro di taglio militare. È robusta, solida, irriconoscibile rispetto alla piccola gracile donna della mia infanzia, e all’anziana signora di dopo la pensione, tutta nervi, impalpabile quasi nella sensibilità che la fa sussultare ad ogni rumore. Qui il volto è teso, duro, pieno d’ombre; dietro affissa al muro, una striscia di carta, la pubblicità d’un giornale: Secolo XIX. Con la tensione cupa di mia madre, contrasta la figuretta di mia sorella appena treenne, con un cappottino di pelliccia di gatto e un cappuccetto che la fa assomigliare a un folletto di bosco; è biondina e trotterellante, per mano a mia madre, ma un passo dietro, quasi trainata su una strada che sembra percorra malvolentieri. Forse vorrebbe andare al Pincio o a Villa Borghese, a giocare, non sa che non si gioca, che è pericoloso anche andare in strada, non sa che una schiera di quegli uomini vestiti di verde che parlano una lingua sconosciuta potrebbero bloccare all’improvviso le strade e urlare e caricare tutti su un camion, colpendo gli attardati con il calcio del fucile. Ha grandi occhi ingenui; non ha mai veduto, e forse non vedrà mai, la foto di un altro bambino, ebreo, con le mani alzate e i neri occhi sgranati davanti al mitra di uno di quegli uomini con l’elmetto in testa e una smorfia di belva tranquilla in viso. La stretta di mia madre la guida verso la casa, la penombra, la sicurezza, non verso i giochi pericolosi del sole e dei bambini. Mia madre la protegge con un’espressione in volto di concentrato timore rovesciato in decisione. Chissà se quegli anni rivivono nella mente delle mie sorelle, o sono passati come un sogno nella loro lieve coscienza. Non hanno ricevuto danni personali dalla guerra, forse essa è passata come una nuvola nera, come uno scoppio di tuoni sulle loro testoline di creature. Mia madre invece la guerra l’ha passata tutta combattendo nella sua trincea, prima nelle cantine - rifugio, poi correndo agli allarmi aerei con tutti noi verso il tunnel della Roma-Nord, poi partendo per il suo lavoro di maestra alle sei del mattino alla volta di Sant’Oreste, per cinque ore di lezione nelle gelide aule del palazzo del Vignola, pranzo portato in borsa e una minestra calda nell’Osteria degli Scarponi, poi due ore di attesa nel fumo dell’osteria o nella tramontana della valle del Tevere, la corriera, il ritorno in treno alle quindici e trenta, a Roma, e ancora a fare la misera spesa per la cena, e l’oscuramento, la breve notte, e alle sei del mattino di nuovo in piedi. Stremata, s’era infine stabilita con la minore delle sorelle a Sant’Oreste, mentre la maggiore era presso gli zii. Quegli anni senza requie, con poco denaro e pochi cibi, di corse, di patemi, di orrori visti o risaputi, avrebbero potuto spezzarla, con quell’accenno di male ai polmoni che aveva avuto da giovane, e invece la fecero rifiorire, senza la grazia dei fiori, ma con la durezza dei cardi. Non so dove fossi io, al tempo della foto, forse in montagna, forse chiuso in qualche casa, o forse libero e guardingo come un gatto selvatico. Mio padre era sempre in viaggio, con i suoi trasporti, e una volta gli mitragliarono anche il camion che s’incendiò e lui si salvò buttandosi in un prato. Portava sempre qualcosa del carico: lo pagavano in natura; una volta un prosciutto, che lui tagliava a tavola tenendolo come un violino, una volta una latta piena di miele, un’altra volta cinquanta bottiglie di cognac che mettemmo sotto la mia branda, e bevevamo a tavola come vino, senza ubriacarci, malgrado pochi bocconi che mandavamo giù. La guerra ci ha torturato lentamente, ma non ci ha colpito come tanti altri. Siamo sempre riusciti a scampare, a sopravvivere. Ne è segno, non eroico, non funebre o epico, non disperato, ma aspramente prosaico, quotidianamente ribattuto nel ferro di una resistenza isolata, questa foto con la mia piccola sorella che mi sembra addolcire il buio dei volti dei passanti e le labbra tirate di mia madre, mentre un fotografo ambulante, un eroe anche lui della giornata sottratta alla fame e alla morte, inquadrava nel pacifico mirino della sua macchina un autentico e per me rivelatore documento di guerra. (Luca Canali, 1980, Il sorriso di Giulia, Pordenone: Editori Riuniti, pp. 95-98)
A1. Nel testo il personaggio della sorella minore è presentato attraverso l’uso di diminutivi e vezzeggiativi (evidenziati nel testo). Questa scelta stilistica ha l’effetto di d) accentuare il contrasto fra la dimensione fiabesca e giocosa dell’infanzia e quella crudele della guerra - sì/no
si
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no
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Immagine familiare di guerra Mia madre scende dal marcia piedi con la minore delle mie sorelle. Sta per attraversare la piazza del Popolo, ha una borsa sotto il braccio, un cappotto scuro di taglio militare. È robusta, solida, irriconoscibile rispetto alla piccola gracile donna della mia infanzia, e all’anziana signora di dopo la pensione, tutta nervi, impalpabile quasi nella sensibilità che la fa sussultare ad ogni rumore. Qui il volto è teso, duro, pieno d’ombre; dietro affissa al muro, una striscia di carta, la pubblicità d’un giornale: Secolo XIX. Con la tensione cupa di mia madre, contrasta la figuretta di mia sorella appena treenne, con un cappottino di pelliccia di gatto e un cappuccetto che la fa assomigliare a un folletto di bosco; è biondina e trotterellante, per mano a mia madre, ma un passo dietro, quasi trainata su una strada che sembra percorra malvolentieri. Forse vorrebbe andare al Pincio o a Villa Borghese, a giocare, non sa che non si gioca, che è pericoloso anche andare in strada, non sa che una schiera di quegli uomini vestiti di verde che parlano una lingua sconosciuta potrebbero bloccare all’improvviso le strade e urlare e caricare tutti su un camion, colpendo gli attardati con il calcio del fucile. Ha grandi occhi ingenui; non ha mai veduto, e forse non vedrà mai, la foto di un altro bambino, ebreo, con le mani alzate e i neri occhi sgranati davanti al mitra di uno di quegli uomini con l’elmetto in testa e una smorfia di belva tranquilla in viso. La stretta di mia madre la guida verso la casa, la penombra, la sicurezza, non verso i giochi pericolosi del sole e dei bambini. Mia madre la protegge con un’espressione in volto di concentrato timore rovesciato in decisione. Chissà se quegli anni rivivono nella mente delle mie sorelle, o sono passati come un sogno nella loro lieve coscienza. Non hanno ricevuto danni personali dalla guerra, forse essa è passata come una nuvola nera, come uno scoppio di tuoni sulle loro testoline di creature. Mia madre invece la guerra l’ha passata tutta combattendo nella sua trincea, prima nelle cantine - rifugio, poi correndo agli allarmi aerei con tutti noi verso il tunnel della Roma-Nord, poi partendo per il suo lavoro di maestra alle sei del mattino alla volta di Sant’Oreste, per cinque ore di lezione nelle gelide aule del palazzo del Vignola, pranzo portato in borsa e una minestra calda nell’Osteria degli Scarponi, poi due ore di attesa nel fumo dell’osteria o nella tramontana della valle del Tevere, la corriera, il ritorno in treno alle quindici e trenta, a Roma, e ancora a fare la misera spesa per la cena, e l’oscuramento, la breve notte, e alle sei del mattino di nuovo in piedi. Stremata, s’era infine stabilita con la minore delle sorelle a Sant’Oreste, mentre la maggiore era presso gli zii. Quegli anni senza requie, con poco denaro e pochi cibi, di corse, di patemi, di orrori visti o risaputi, avrebbero potuto spezzarla, con quell’accenno di male ai polmoni che aveva avuto da giovane, e invece la fecero rifiorire, senza la grazia dei fiori, ma con la durezza dei cardi. Non so dove fossi io, al tempo della foto, forse in montagna, forse chiuso in qualche casa, o forse libero e guardingo come un gatto selvatico. Mio padre era sempre in viaggio, con i suoi trasporti, e una volta gli mitragliarono anche il camion che s’incendiò e lui si salvò buttandosi in un prato. Portava sempre qualcosa del carico: lo pagavano in natura; una volta un prosciutto, che lui tagliava a tavola tenendolo come un violino, una volta una latta piena di miele, un’altra volta cinquanta bottiglie di cognac che mettemmo sotto la mia branda, e bevevamo a tavola come vino, senza ubriacarci, malgrado pochi bocconi che mandavamo giù. La guerra ci ha torturato lentamente, ma non ci ha colpito come tanti altri. Siamo sempre riusciti a scampare, a sopravvivere. Ne è segno, non eroico, non funebre o epico, non disperato, ma aspramente prosaico, quotidianamente ribattuto nel ferro di una resistenza isolata, questa foto con la mia piccola sorella che mi sembra addolcire il buio dei volti dei passanti e le labbra tirate di mia madre, mentre un fotografo ambulante, un eroe anche lui della giornata sottratta alla fame e alla morte, inquadrava nel pacifico mirino della sua macchina un autentico e per me rivelatore documento di guerra. (Luca Canali, 1980, Il sorriso di Giulia, Pordenone: Editori Riuniti, pp. 95-98)
A1. Nel testo il personaggio della sorella minore è presentato attraverso l’uso di diminutivi e vezzeggiativi (evidenziati nel testo). Questa scelta stilistica ha l’effetto di e) accentuare il contrasto fra la sua dolcezza e la durezza della madre - sì/no
no
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no
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Immagine familiare di guerra Mia madre scende dal marcia piedi con la minore delle mie sorelle. Sta per attraversare la piazza del Popolo, ha una borsa sotto il braccio, un cappotto scuro di taglio militare. È robusta, solida, irriconoscibile rispetto alla piccola gracile donna della mia infanzia, e all’anziana signora di dopo la pensione, tutta nervi, impalpabile quasi nella sensibilità che la fa sussultare ad ogni rumore. Qui il volto è teso, duro, pieno d’ombre; dietro affissa al muro, una striscia di carta, la pubblicità d’un giornale: Secolo XIX. Con la tensione cupa di mia madre, contrasta la figuretta di mia sorella appena treenne, con un cappottino di pelliccia di gatto e un cappuccetto che la fa assomigliare a un folletto di bosco; è biondina e trotterellante, per mano a mia madre, ma un passo dietro, quasi trainata su una strada che sembra percorra malvolentieri. Forse vorrebbe andare al Pincio o a Villa Borghese, a giocare, non sa che non si gioca, che è pericoloso anche andare in strada, non sa che una schiera di quegli uomini vestiti di verde che parlano una lingua sconosciuta potrebbero bloccare all’improvviso le strade e urlare e caricare tutti su un camion, colpendo gli attardati con il calcio del fucile. Ha grandi occhi ingenui; non ha mai veduto, e forse non vedrà mai, la foto di un altro bambino, ebreo, con le mani alzate e i neri occhi sgranati davanti al mitra di uno di quegli uomini con l’elmetto in testa e una smorfia di belva tranquilla in viso. La stretta di mia madre la guida verso la casa, la penombra, la sicurezza, non verso i giochi pericolosi del sole e dei bambini. Mia madre la protegge con un’espressione in volto di concentrato timore rovesciato in decisione. Chissà se quegli anni rivivono nella mente delle mie sorelle, o sono passati come un sogno nella loro lieve coscienza. Non hanno ricevuto danni personali dalla guerra, forse essa è passata come una nuvola nera, come uno scoppio di tuoni sulle loro testoline di creature. Mia madre invece la guerra l’ha passata tutta combattendo nella sua trincea, prima nelle cantine - rifugio, poi correndo agli allarmi aerei con tutti noi verso il tunnel della Roma-Nord, poi partendo per il suo lavoro di maestra alle sei del mattino alla volta di Sant’Oreste, per cinque ore di lezione nelle gelide aule del palazzo del Vignola, pranzo portato in borsa e una minestra calda nell’Osteria degli Scarponi, poi due ore di attesa nel fumo dell’osteria o nella tramontana della valle del Tevere, la corriera, il ritorno in treno alle quindici e trenta, a Roma, e ancora a fare la misera spesa per la cena, e l’oscuramento, la breve notte, e alle sei del mattino di nuovo in piedi. Stremata, s’era infine stabilita con la minore delle sorelle a Sant’Oreste, mentre la maggiore era presso gli zii. Quegli anni senza requie, con poco denaro e pochi cibi, di corse, di patemi, di orrori visti o risaputi, avrebbero potuto spezzarla, con quell’accenno di male ai polmoni che aveva avuto da giovane, e invece la fecero rifiorire, senza la grazia dei fiori, ma con la durezza dei cardi. Non so dove fossi io, al tempo della foto, forse in montagna, forse chiuso in qualche casa, o forse libero e guardingo come un gatto selvatico. Mio padre era sempre in viaggio, con i suoi trasporti, e una volta gli mitragliarono anche il camion che s’incendiò e lui si salvò buttandosi in un prato. Portava sempre qualcosa del carico: lo pagavano in natura; una volta un prosciutto, che lui tagliava a tavola tenendolo come un violino, una volta una latta piena di miele, un’altra volta cinquanta bottiglie di cognac che mettemmo sotto la mia branda, e bevevamo a tavola come vino, senza ubriacarci, malgrado pochi bocconi che mandavamo giù. La guerra ci ha torturato lentamente, ma non ci ha colpito come tanti altri. Siamo sempre riusciti a scampare, a sopravvivere. Ne è segno, non eroico, non funebre o epico, non disperato, ma aspramente prosaico, quotidianamente ribattuto nel ferro di una resistenza isolata, questa foto con la mia piccola sorella che mi sembra addolcire il buio dei volti dei passanti e le labbra tirate di mia madre, mentre un fotografo ambulante, un eroe anche lui della giornata sottratta alla fame e alla morte, inquadrava nel pacifico mirino della sua macchina un autentico e per me rivelatore documento di guerra. (Luca Canali, 1980, Il sorriso di Giulia, Pordenone: Editori Riuniti, pp. 95-98)
A2. La parola “guardingo”, evidenziata nel testo, può essere sostituita in questo contesto con a) prudente – corretta/errata
corretta
['item_254_0.png']
2019_13_DR_A
binaria
corretta
errata
null
Immagine familiare di guerra Mia madre scende dal marcia piedi con la minore delle mie sorelle. Sta per attraversare la piazza del Popolo, ha una borsa sotto il braccio, un cappotto scuro di taglio militare. È robusta, solida, irriconoscibile rispetto alla piccola gracile donna della mia infanzia, e all’anziana signora di dopo la pensione, tutta nervi, impalpabile quasi nella sensibilità che la fa sussultare ad ogni rumore. Qui il volto è teso, duro, pieno d’ombre; dietro affissa al muro, una striscia di carta, la pubblicità d’un giornale: Secolo XIX. Con la tensione cupa di mia madre, contrasta la figuretta di mia sorella appena treenne, con un cappottino di pelliccia di gatto e un cappuccetto che la fa assomigliare a un folletto di bosco; è biondina e trotterellante, per mano a mia madre, ma un passo dietro, quasi trainata su una strada che sembra percorra malvolentieri. Forse vorrebbe andare al Pincio o a Villa Borghese, a giocare, non sa che non si gioca, che è pericoloso anche andare in strada, non sa che una schiera di quegli uomini vestiti di verde che parlano una lingua sconosciuta potrebbero bloccare all’improvviso le strade e urlare e caricare tutti su un camion, colpendo gli attardati con il calcio del fucile. Ha grandi occhi ingenui; non ha mai veduto, e forse non vedrà mai, la foto di un altro bambino, ebreo, con le mani alzate e i neri occhi sgranati davanti al mitra di uno di quegli uomini con l’elmetto in testa e una smorfia di belva tranquilla in viso. La stretta di mia madre la guida verso la casa, la penombra, la sicurezza, non verso i giochi pericolosi del sole e dei bambini. Mia madre la protegge con un’espressione in volto di concentrato timore rovesciato in decisione. Chissà se quegli anni rivivono nella mente delle mie sorelle, o sono passati come un sogno nella loro lieve coscienza. Non hanno ricevuto danni personali dalla guerra, forse essa è passata come una nuvola nera, come uno scoppio di tuoni sulle loro testoline di creature. Mia madre invece la guerra l’ha passata tutta combattendo nella sua trincea, prima nelle cantine - rifugio, poi correndo agli allarmi aerei con tutti noi verso il tunnel della Roma-Nord, poi partendo per il suo lavoro di maestra alle sei del mattino alla volta di Sant’Oreste, per cinque ore di lezione nelle gelide aule del palazzo del Vignola, pranzo portato in borsa e una minestra calda nell’Osteria degli Scarponi, poi due ore di attesa nel fumo dell’osteria o nella tramontana della valle del Tevere, la corriera, il ritorno in treno alle quindici e trenta, a Roma, e ancora a fare la misera spesa per la cena, e l’oscuramento, la breve notte, e alle sei del mattino di nuovo in piedi. Stremata, s’era infine stabilita con la minore delle sorelle a Sant’Oreste, mentre la maggiore era presso gli zii. Quegli anni senza requie, con poco denaro e pochi cibi, di corse, di patemi, di orrori visti o risaputi, avrebbero potuto spezzarla, con quell’accenno di male ai polmoni che aveva avuto da giovane, e invece la fecero rifiorire, senza la grazia dei fiori, ma con la durezza dei cardi. Non so dove fossi io, al tempo della foto, forse in montagna, forse chiuso in qualche casa, o forse libero e guardingo come un gatto selvatico. Mio padre era sempre in viaggio, con i suoi trasporti, e una volta gli mitragliarono anche il camion che s’incendiò e lui si salvò buttandosi in un prato. Portava sempre qualcosa del carico: lo pagavano in natura; una volta un prosciutto, che lui tagliava a tavola tenendolo come un violino, una volta una latta piena di miele, un’altra volta cinquanta bottiglie di cognac che mettemmo sotto la mia branda, e bevevamo a tavola come vino, senza ubriacarci, malgrado pochi bocconi che mandavamo giù. La guerra ci ha torturato lentamente, ma non ci ha colpito come tanti altri. Siamo sempre riusciti a scampare, a sopravvivere. Ne è segno, non eroico, non funebre o epico, non disperato, ma aspramente prosaico, quotidianamente ribattuto nel ferro di una resistenza isolata, questa foto con la mia piccola sorella che mi sembra addolcire il buio dei volti dei passanti e le labbra tirate di mia madre, mentre un fotografo ambulante, un eroe anche lui della giornata sottratta alla fame e alla morte, inquadrava nel pacifico mirino della sua macchina un autentico e per me rivelatore documento di guerra. (Luca Canali, 1980, Il sorriso di Giulia, Pordenone: Editori Riuniti, pp. 95-98)
A2. La parola “guardingo”, evidenziata nel testo, può essere sostituita in questo contesto con b) diffidente – corretta/errata
corretta
['item_254_0.png']
2019_13_DR_A
binaria
corretta
errata
null
Immagine familiare di guerra Mia madre scende dal marcia piedi con la minore delle mie sorelle. Sta per attraversare la piazza del Popolo, ha una borsa sotto il braccio, un cappotto scuro di taglio militare. È robusta, solida, irriconoscibile rispetto alla piccola gracile donna della mia infanzia, e all’anziana signora di dopo la pensione, tutta nervi, impalpabile quasi nella sensibilità che la fa sussultare ad ogni rumore. Qui il volto è teso, duro, pieno d’ombre; dietro affissa al muro, una striscia di carta, la pubblicità d’un giornale: Secolo XIX. Con la tensione cupa di mia madre, contrasta la figuretta di mia sorella appena treenne, con un cappottino di pelliccia di gatto e un cappuccetto che la fa assomigliare a un folletto di bosco; è biondina e trotterellante, per mano a mia madre, ma un passo dietro, quasi trainata su una strada che sembra percorra malvolentieri. Forse vorrebbe andare al Pincio o a Villa Borghese, a giocare, non sa che non si gioca, che è pericoloso anche andare in strada, non sa che una schiera di quegli uomini vestiti di verde che parlano una lingua sconosciuta potrebbero bloccare all’improvviso le strade e urlare e caricare tutti su un camion, colpendo gli attardati con il calcio del fucile. Ha grandi occhi ingenui; non ha mai veduto, e forse non vedrà mai, la foto di un altro bambino, ebreo, con le mani alzate e i neri occhi sgranati davanti al mitra di uno di quegli uomini con l’elmetto in testa e una smorfia di belva tranquilla in viso. La stretta di mia madre la guida verso la casa, la penombra, la sicurezza, non verso i giochi pericolosi del sole e dei bambini. Mia madre la protegge con un’espressione in volto di concentrato timore rovesciato in decisione. Chissà se quegli anni rivivono nella mente delle mie sorelle, o sono passati come un sogno nella loro lieve coscienza. Non hanno ricevuto danni personali dalla guerra, forse essa è passata come una nuvola nera, come uno scoppio di tuoni sulle loro testoline di creature. Mia madre invece la guerra l’ha passata tutta combattendo nella sua trincea, prima nelle cantine - rifugio, poi correndo agli allarmi aerei con tutti noi verso il tunnel della Roma-Nord, poi partendo per il suo lavoro di maestra alle sei del mattino alla volta di Sant’Oreste, per cinque ore di lezione nelle gelide aule del palazzo del Vignola, pranzo portato in borsa e una minestra calda nell’Osteria degli Scarponi, poi due ore di attesa nel fumo dell’osteria o nella tramontana della valle del Tevere, la corriera, il ritorno in treno alle quindici e trenta, a Roma, e ancora a fare la misera spesa per la cena, e l’oscuramento, la breve notte, e alle sei del mattino di nuovo in piedi. Stremata, s’era infine stabilita con la minore delle sorelle a Sant’Oreste, mentre la maggiore era presso gli zii. Quegli anni senza requie, con poco denaro e pochi cibi, di corse, di patemi, di orrori visti o risaputi, avrebbero potuto spezzarla, con quell’accenno di male ai polmoni che aveva avuto da giovane, e invece la fecero rifiorire, senza la grazia dei fiori, ma con la durezza dei cardi. Non so dove fossi io, al tempo della foto, forse in montagna, forse chiuso in qualche casa, o forse libero e guardingo come un gatto selvatico. Mio padre era sempre in viaggio, con i suoi trasporti, e una volta gli mitragliarono anche il camion che s’incendiò e lui si salvò buttandosi in un prato. Portava sempre qualcosa del carico: lo pagavano in natura; una volta un prosciutto, che lui tagliava a tavola tenendolo come un violino, una volta una latta piena di miele, un’altra volta cinquanta bottiglie di cognac che mettemmo sotto la mia branda, e bevevamo a tavola come vino, senza ubriacarci, malgrado pochi bocconi che mandavamo giù. La guerra ci ha torturato lentamente, ma non ci ha colpito come tanti altri. Siamo sempre riusciti a scampare, a sopravvivere. Ne è segno, non eroico, non funebre o epico, non disperato, ma aspramente prosaico, quotidianamente ribattuto nel ferro di una resistenza isolata, questa foto con la mia piccola sorella che mi sembra addolcire il buio dei volti dei passanti e le labbra tirate di mia madre, mentre un fotografo ambulante, un eroe anche lui della giornata sottratta alla fame e alla morte, inquadrava nel pacifico mirino della sua macchina un autentico e per me rivelatore documento di guerra. (Luca Canali, 1980, Il sorriso di Giulia, Pordenone: Editori Riuniti, pp. 95-98)
A2. La parola “guardingo”, evidenziata nel testo, può essere sostituita in questo contesto con c) riflessivo– corretta/errata
errata
['item_254_0.png']
2019_13_DR_A
binaria
corretta
errata
null
Immagine familiare di guerra Mia madre scende dal marcia piedi con la minore delle mie sorelle. Sta per attraversare la piazza del Popolo, ha una borsa sotto il braccio, un cappotto scuro di taglio militare. È robusta, solida, irriconoscibile rispetto alla piccola gracile donna della mia infanzia, e all’anziana signora di dopo la pensione, tutta nervi, impalpabile quasi nella sensibilità che la fa sussultare ad ogni rumore. Qui il volto è teso, duro, pieno d’ombre; dietro affissa al muro, una striscia di carta, la pubblicità d’un giornale: Secolo XIX. Con la tensione cupa di mia madre, contrasta la figuretta di mia sorella appena treenne, con un cappottino di pelliccia di gatto e un cappuccetto che la fa assomigliare a un folletto di bosco; è biondina e trotterellante, per mano a mia madre, ma un passo dietro, quasi trainata su una strada che sembra percorra malvolentieri. Forse vorrebbe andare al Pincio o a Villa Borghese, a giocare, non sa che non si gioca, che è pericoloso anche andare in strada, non sa che una schiera di quegli uomini vestiti di verde che parlano una lingua sconosciuta potrebbero bloccare all’improvviso le strade e urlare e caricare tutti su un camion, colpendo gli attardati con il calcio del fucile. Ha grandi occhi ingenui; non ha mai veduto, e forse non vedrà mai, la foto di un altro bambino, ebreo, con le mani alzate e i neri occhi sgranati davanti al mitra di uno di quegli uomini con l’elmetto in testa e una smorfia di belva tranquilla in viso. La stretta di mia madre la guida verso la casa, la penombra, la sicurezza, non verso i giochi pericolosi del sole e dei bambini. Mia madre la protegge con un’espressione in volto di concentrato timore rovesciato in decisione. Chissà se quegli anni rivivono nella mente delle mie sorelle, o sono passati come un sogno nella loro lieve coscienza. Non hanno ricevuto danni personali dalla guerra, forse essa è passata come una nuvola nera, come uno scoppio di tuoni sulle loro testoline di creature. Mia madre invece la guerra l’ha passata tutta combattendo nella sua trincea, prima nelle cantine - rifugio, poi correndo agli allarmi aerei con tutti noi verso il tunnel della Roma-Nord, poi partendo per il suo lavoro di maestra alle sei del mattino alla volta di Sant’Oreste, per cinque ore di lezione nelle gelide aule del palazzo del Vignola, pranzo portato in borsa e una minestra calda nell’Osteria degli Scarponi, poi due ore di attesa nel fumo dell’osteria o nella tramontana della valle del Tevere, la corriera, il ritorno in treno alle quindici e trenta, a Roma, e ancora a fare la misera spesa per la cena, e l’oscuramento, la breve notte, e alle sei del mattino di nuovo in piedi. Stremata, s’era infine stabilita con la minore delle sorelle a Sant’Oreste, mentre la maggiore era presso gli zii. Quegli anni senza requie, con poco denaro e pochi cibi, di corse, di patemi, di orrori visti o risaputi, avrebbero potuto spezzarla, con quell’accenno di male ai polmoni che aveva avuto da giovane, e invece la fecero rifiorire, senza la grazia dei fiori, ma con la durezza dei cardi. Non so dove fossi io, al tempo della foto, forse in montagna, forse chiuso in qualche casa, o forse libero e guardingo come un gatto selvatico. Mio padre era sempre in viaggio, con i suoi trasporti, e una volta gli mitragliarono anche il camion che s’incendiò e lui si salvò buttandosi in un prato. Portava sempre qualcosa del carico: lo pagavano in natura; una volta un prosciutto, che lui tagliava a tavola tenendolo come un violino, una volta una latta piena di miele, un’altra volta cinquanta bottiglie di cognac che mettemmo sotto la mia branda, e bevevamo a tavola come vino, senza ubriacarci, malgrado pochi bocconi che mandavamo giù. La guerra ci ha torturato lentamente, ma non ci ha colpito come tanti altri. Siamo sempre riusciti a scampare, a sopravvivere. Ne è segno, non eroico, non funebre o epico, non disperato, ma aspramente prosaico, quotidianamente ribattuto nel ferro di una resistenza isolata, questa foto con la mia piccola sorella che mi sembra addolcire il buio dei volti dei passanti e le labbra tirate di mia madre, mentre un fotografo ambulante, un eroe anche lui della giornata sottratta alla fame e alla morte, inquadrava nel pacifico mirino della sua macchina un autentico e per me rivelatore documento di guerra. (Luca Canali, 1980, Il sorriso di Giulia, Pordenone: Editori Riuniti, pp. 95-98)
A2. La parola “guardingo”, evidenziata nel testo, può essere sostituita in questo contesto con d) attento– corretta/errata
corretta
['item_254_0.png']
2019_13_DR_A
binaria
corretta
errata
null
Immagine familiare di guerra Mia madre scende dal marcia piedi con la minore delle mie sorelle. Sta per attraversare la piazza del Popolo, ha una borsa sotto il braccio, un cappotto scuro di taglio militare. È robusta, solida, irriconoscibile rispetto alla piccola gracile donna della mia infanzia, e all’anziana signora di dopo la pensione, tutta nervi, impalpabile quasi nella sensibilità che la fa sussultare ad ogni rumore. Qui il volto è teso, duro, pieno d’ombre; dietro affissa al muro, una striscia di carta, la pubblicità d’un giornale: Secolo XIX. Con la tensione cupa di mia madre, contrasta la figuretta di mia sorella appena treenne, con un cappottino di pelliccia di gatto e un cappuccetto che la fa assomigliare a un folletto di bosco; è biondina e trotterellante, per mano a mia madre, ma un passo dietro, quasi trainata su una strada che sembra percorra malvolentieri. Forse vorrebbe andare al Pincio o a Villa Borghese, a giocare, non sa che non si gioca, che è pericoloso anche andare in strada, non sa che una schiera di quegli uomini vestiti di verde che parlano una lingua sconosciuta potrebbero bloccare all’improvviso le strade e urlare e caricare tutti su un camion, colpendo gli attardati con il calcio del fucile. Ha grandi occhi ingenui; non ha mai veduto, e forse non vedrà mai, la foto di un altro bambino, ebreo, con le mani alzate e i neri occhi sgranati davanti al mitra di uno di quegli uomini con l’elmetto in testa e una smorfia di belva tranquilla in viso. La stretta di mia madre la guida verso la casa, la penombra, la sicurezza, non verso i giochi pericolosi del sole e dei bambini. Mia madre la protegge con un’espressione in volto di concentrato timore rovesciato in decisione. Chissà se quegli anni rivivono nella mente delle mie sorelle, o sono passati come un sogno nella loro lieve coscienza. Non hanno ricevuto danni personali dalla guerra, forse essa è passata come una nuvola nera, come uno scoppio di tuoni sulle loro testoline di creature. Mia madre invece la guerra l’ha passata tutta combattendo nella sua trincea, prima nelle cantine - rifugio, poi correndo agli allarmi aerei con tutti noi verso il tunnel della Roma-Nord, poi partendo per il suo lavoro di maestra alle sei del mattino alla volta di Sant’Oreste, per cinque ore di lezione nelle gelide aule del palazzo del Vignola, pranzo portato in borsa e una minestra calda nell’Osteria degli Scarponi, poi due ore di attesa nel fumo dell’osteria o nella tramontana della valle del Tevere, la corriera, il ritorno in treno alle quindici e trenta, a Roma, e ancora a fare la misera spesa per la cena, e l’oscuramento, la breve notte, e alle sei del mattino di nuovo in piedi. Stremata, s’era infine stabilita con la minore delle sorelle a Sant’Oreste, mentre la maggiore era presso gli zii. Quegli anni senza requie, con poco denaro e pochi cibi, di corse, di patemi, di orrori visti o risaputi, avrebbero potuto spezzarla, con quell’accenno di male ai polmoni che aveva avuto da giovane, e invece la fecero rifiorire, senza la grazia dei fiori, ma con la durezza dei cardi. Non so dove fossi io, al tempo della foto, forse in montagna, forse chiuso in qualche casa, o forse libero e guardingo come un gatto selvatico. Mio padre era sempre in viaggio, con i suoi trasporti, e una volta gli mitragliarono anche il camion che s’incendiò e lui si salvò buttandosi in un prato. Portava sempre qualcosa del carico: lo pagavano in natura; una volta un prosciutto, che lui tagliava a tavola tenendolo come un violino, una volta una latta piena di miele, un’altra volta cinquanta bottiglie di cognac che mettemmo sotto la mia branda, e bevevamo a tavola come vino, senza ubriacarci, malgrado pochi bocconi che mandavamo giù. La guerra ci ha torturato lentamente, ma non ci ha colpito come tanti altri. Siamo sempre riusciti a scampare, a sopravvivere. Ne è segno, non eroico, non funebre o epico, non disperato, ma aspramente prosaico, quotidianamente ribattuto nel ferro di una resistenza isolata, questa foto con la mia piccola sorella che mi sembra addolcire il buio dei volti dei passanti e le labbra tirate di mia madre, mentre un fotografo ambulante, un eroe anche lui della giornata sottratta alla fame e alla morte, inquadrava nel pacifico mirino della sua macchina un autentico e per me rivelatore documento di guerra. (Luca Canali, 1980, Il sorriso di Giulia, Pordenone: Editori Riuniti, pp. 95-98)
A2. La parola “guardingo”, evidenziata nel testo, può essere sostituita in questo contesto con e) avveduto– corretta/errata
errata
['item_254_0.png']
2019_13_DR_A
binaria
corretta
errata
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Immagine familiare di guerra Mia madre scende dal marcia piedi con la minore delle mie sorelle. Sta per attraversare la piazza del Popolo, ha una borsa sotto il braccio, un cappotto scuro di taglio militare. È robusta, solida, irriconoscibile rispetto alla piccola gracile donna della mia infanzia, e all’anziana signora di dopo la pensione, tutta nervi, impalpabile quasi nella sensibilità che la fa sussultare ad ogni rumore. Qui il volto è teso, duro, pieno d’ombre; dietro affissa al muro, una striscia di carta, la pubblicità d’un giornale: Secolo XIX. Con la tensione cupa di mia madre, contrasta la figuretta di mia sorella appena treenne, con un cappottino di pelliccia di gatto e un cappuccetto che la fa assomigliare a un folletto di bosco; è biondina e trotterellante, per mano a mia madre, ma un passo dietro, quasi trainata su una strada che sembra percorra malvolentieri. Forse vorrebbe andare al Pincio o a Villa Borghese, a giocare, non sa che non si gioca, che è pericoloso anche andare in strada, non sa che una schiera di quegli uomini vestiti di verde che parlano una lingua sconosciuta potrebbero bloccare all’improvviso le strade e urlare e caricare tutti su un camion, colpendo gli attardati con il calcio del fucile. Ha grandi occhi ingenui; non ha mai veduto, e forse non vedrà mai, la foto di un altro bambino, ebreo, con le mani alzate e i neri occhi sgranati davanti al mitra di uno di quegli uomini con l’elmetto in testa e una smorfia di belva tranquilla in viso. La stretta di mia madre la guida verso la casa, la penombra, la sicurezza, non verso i giochi pericolosi del sole e dei bambini. Mia madre la protegge con un’espressione in volto di concentrato timore rovesciato in decisione. Chissà se quegli anni rivivono nella mente delle mie sorelle, o sono passati come un sogno nella loro lieve coscienza. Non hanno ricevuto danni personali dalla guerra, forse essa è passata come una nuvola nera, come uno scoppio di tuoni sulle loro testoline di creature. Mia madre invece la guerra l’ha passata tutta combattendo nella sua trincea, prima nelle cantine - rifugio, poi correndo agli allarmi aerei con tutti noi verso il tunnel della Roma-Nord, poi partendo per il suo lavoro di maestra alle sei del mattino alla volta di Sant’Oreste, per cinque ore di lezione nelle gelide aule del palazzo del Vignola, pranzo portato in borsa e una minestra calda nell’Osteria degli Scarponi, poi due ore di attesa nel fumo dell’osteria o nella tramontana della valle del Tevere, la corriera, il ritorno in treno alle quindici e trenta, a Roma, e ancora a fare la misera spesa per la cena, e l’oscuramento, la breve notte, e alle sei del mattino di nuovo in piedi. Stremata, s’era infine stabilita con la minore delle sorelle a Sant’Oreste, mentre la maggiore era presso gli zii. Quegli anni senza requie, con poco denaro e pochi cibi, di corse, di patemi, di orrori visti o risaputi, avrebbero potuto spezzarla, con quell’accenno di male ai polmoni che aveva avuto da giovane, e invece la fecero rifiorire, senza la grazia dei fiori, ma con la durezza dei cardi. Non so dove fossi io, al tempo della foto, forse in montagna, forse chiuso in qualche casa, o forse libero e guardingo come un gatto selvatico. Mio padre era sempre in viaggio, con i suoi trasporti, e una volta gli mitragliarono anche il camion che s’incendiò e lui si salvò buttandosi in un prato. Portava sempre qualcosa del carico: lo pagavano in natura; una volta un prosciutto, che lui tagliava a tavola tenendolo come un violino, una volta una latta piena di miele, un’altra volta cinquanta bottiglie di cognac che mettemmo sotto la mia branda, e bevevamo a tavola come vino, senza ubriacarci, malgrado pochi bocconi che mandavamo giù. La guerra ci ha torturato lentamente, ma non ci ha colpito come tanti altri. Siamo sempre riusciti a scampare, a sopravvivere. Ne è segno, non eroico, non funebre o epico, non disperato, ma aspramente prosaico, quotidianamente ribattuto nel ferro di una resistenza isolata, questa foto con la mia piccola sorella che mi sembra addolcire il buio dei volti dei passanti e le labbra tirate di mia madre, mentre un fotografo ambulante, un eroe anche lui della giornata sottratta alla fame e alla morte, inquadrava nel pacifico mirino della sua macchina un autentico e per me rivelatore documento di guerra. (Luca Canali, 1980, Il sorriso di Giulia, Pordenone: Editori Riuniti, pp. 95-98)
A2. La parola “guardingo”, evidenziata nel testo, può essere sostituita in questo contesto con f) vigile– corretta/errata
corretta
['item_254_0.png']
2019_13_DR_A
binaria
corretta
errata
null
Immagine familiare di guerra Mia madre scende dal marcia piedi con la minore delle mie sorelle. Sta per attraversare la piazza del Popolo, ha una borsa sotto il braccio, un cappotto scuro di taglio militare. È robusta, solida, irriconoscibile rispetto alla piccola gracile donna della mia infanzia, e all’anziana signora di dopo la pensione, tutta nervi, impalpabile quasi nella sensibilità che la fa sussultare ad ogni rumore. Qui il volto è teso, duro, pieno d’ombre; dietro affissa al muro, una striscia di carta, la pubblicità d’un giornale: Secolo XIX. Con la tensione cupa di mia madre, contrasta la figuretta di mia sorella appena treenne, con un cappottino di pelliccia di gatto e un cappuccetto che la fa assomigliare a un folletto di bosco; è biondina e trotterellante, per mano a mia madre, ma un passo dietro, quasi trainata su una strada che sembra percorra malvolentieri. Forse vorrebbe andare al Pincio o a Villa Borghese, a giocare, non sa che non si gioca, che è pericoloso anche andare in strada, non sa che una schiera di quegli uomini vestiti di verde che parlano una lingua sconosciuta potrebbero bloccare all’improvviso le strade e urlare e caricare tutti su un camion, colpendo gli attardati con il calcio del fucile. Ha grandi occhi ingenui; non ha mai veduto, e forse non vedrà mai, la foto di un altro bambino, ebreo, con le mani alzate e i neri occhi sgranati davanti al mitra di uno di quegli uomini con l’elmetto in testa e una smorfia di belva tranquilla in viso. La stretta di mia madre la guida verso la casa, la penombra, la sicurezza, non verso i giochi pericolosi del sole e dei bambini. Mia madre la protegge con un’espressione in volto di concentrato timore rovesciato in decisione. Chissà se quegli anni rivivono nella mente delle mie sorelle, o sono passati come un sogno nella loro lieve coscienza. Non hanno ricevuto danni personali dalla guerra, forse essa è passata come una nuvola nera, come uno scoppio di tuoni sulle loro testoline di creature. Mia madre invece la guerra l’ha passata tutta combattendo nella sua trincea, prima nelle cantine - rifugio, poi correndo agli allarmi aerei con tutti noi verso il tunnel della Roma-Nord, poi partendo per il suo lavoro di maestra alle sei del mattino alla volta di Sant’Oreste, per cinque ore di lezione nelle gelide aule del palazzo del Vignola, pranzo portato in borsa e una minestra calda nell’Osteria degli Scarponi, poi due ore di attesa nel fumo dell’osteria o nella tramontana della valle del Tevere, la corriera, il ritorno in treno alle quindici e trenta, a Roma, e ancora a fare la misera spesa per la cena, e l’oscuramento, la breve notte, e alle sei del mattino di nuovo in piedi. Stremata, s’era infine stabilita con la minore delle sorelle a Sant’Oreste, mentre la maggiore era presso gli zii. Quegli anni senza requie, con poco denaro e pochi cibi, di corse, di patemi, di orrori visti o risaputi, avrebbero potuto spezzarla, con quell’accenno di male ai polmoni che aveva avuto da giovane, e invece la fecero rifiorire, senza la grazia dei fiori, ma con la durezza dei cardi. Non so dove fossi io, al tempo della foto, forse in montagna, forse chiuso in qualche casa, o forse libero e guardingo come un gatto selvatico. Mio padre era sempre in viaggio, con i suoi trasporti, e una volta gli mitragliarono anche il camion che s’incendiò e lui si salvò buttandosi in un prato. Portava sempre qualcosa del carico: lo pagavano in natura; una volta un prosciutto, che lui tagliava a tavola tenendolo come un violino, una volta una latta piena di miele, un’altra volta cinquanta bottiglie di cognac che mettemmo sotto la mia branda, e bevevamo a tavola come vino, senza ubriacarci, malgrado pochi bocconi che mandavamo giù. La guerra ci ha torturato lentamente, ma non ci ha colpito come tanti altri. Siamo sempre riusciti a scampare, a sopravvivere. Ne è segno, non eroico, non funebre o epico, non disperato, ma aspramente prosaico, quotidianamente ribattuto nel ferro di una resistenza isolata, questa foto con la mia piccola sorella che mi sembra addolcire il buio dei volti dei passanti e le labbra tirate di mia madre, mentre un fotografo ambulante, un eroe anche lui della giornata sottratta alla fame e alla morte, inquadrava nel pacifico mirino della sua macchina un autentico e per me rivelatore documento di guerra. (Luca Canali, 1980, Il sorriso di Giulia, Pordenone: Editori Riuniti, pp. 95-98)
A2. La parola “guardingo”, evidenziata nel testo, può essere sostituita in questo contesto con g) girovago– corretta/errata
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TESTO D I conflitti tra i bambini e i genitori aumentano sensibilmente dopo il primo anno. Prima di questa età, l’autonomia molto ridotta del bambino permette di avere su di lui un controllo relativamente facile. Il bambino è dal canto suo più arrendevole che nel periodo successivo, proprio perché cosciente della sua impotenza e dipendenza dall’adulto e perché non ancora spinto così fortemente dalla sua biologica tendenza all’autonomia a opporsi alla volontà degli adulti. La conquista del camminare, con l’aumento di autonomia che ne consegue, in parte rallegra l’adulto ma in parte lo irrita. Pur diventando di giorno in giorno più autonomo, cosa insieme desiderata e temuta, il bambino interferirà più attivamente di prima nella sua vita, lo costringerà ad occuparsi dilui anche se non ne ha voglia e non gli lascerà più come un tempo la scelta se occuparsene o ignorarlo. Il rapporto, diventato più antagonistico, eccita l’autoritarismo dell’adulto. È molto diverso aver a che fare con un bambino che si può confinare nel suo lettino, nel recinto, nel passeggino, sempre ingabbiato e sotto controllo, piuttosto che con un bambino che scorrazza per casa toccando ogni cosa, che ha una mobilità tale che gli consente di sottrarsi tanto più spesso e con maggior successo alle imposizioni dell’adulto. (Tratto da: Elena Gianini Belotti, 1973, Dalla parte delle bambine. L’influenza dei condizionamenti sociali nella formazione del ruolo femminile nei primi anni di vita, Milano: Feltrinelli, pp. 58-59)
D1. Nel descrivere i rapporti tra adulto e bambino, vengono utilizzati aggettivi possessivi e pronomi personali che fanno da riprese anaforiche, richiamando ora l’uno a ora l’altro dei due protagonisti. Indica per i seguenti pronomi se indicano l'adulto o il bambino: a) lo(1) – richiama l’adulto/richiama il bambino
richiama l'adulto
['item_262_0.png']
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richiama l'adulto
richiama il bambino
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TESTO D I conflitti tra i bambini e i genitori aumentano sensibilmente dopo il primo anno. Prima di questa età, l’autonomia molto ridotta del bambino permette di avere su di lui un controllo relativamente facile. Il bambino è dal canto suo più arrendevole che nel periodo successivo, proprio perché cosciente della sua impotenza e dipendenza dall’adulto e perché non ancora spinto così fortemente dalla sua biologica tendenza all’autonomia a opporsi alla volontà degli adulti. La conquista del camminare, con l’aumento di autonomia che ne consegue, in parte rallegra l’adulto ma in parte lo irrita. Pur diventando di giorno in giorno più autonomo, cosa insieme desiderata e temuta, il bambino interferirà più attivamente di prima nella sua vita, lo costringerà ad occuparsi dilui anche se non ne ha voglia e non gli lascerà più come un tempo la scelta se occuparsene o ignorarlo. Il rapporto, diventato più antagonistico, eccita l’autoritarismo dell’adulto. È molto diverso aver a che fare con un bambino che si può confinare nel suo lettino, nel recinto, nel passeggino, sempre ingabbiato e sotto controllo, piuttosto che con un bambino che scorrazza per casa toccando ogni cosa, che ha una mobilità tale che gli consente di sottrarsi tanto più spesso e con maggior successo alle imposizioni dell’adulto. (Tratto da: Elena Gianini Belotti, 1973, Dalla parte delle bambine. L’influenza dei condizionamenti sociali nella formazione del ruolo femminile nei primi anni di vita, Milano: Feltrinelli, pp. 58-59)
D1. Nel descrivere i rapporti tra adulto e bambino, vengono utilizzati aggettivi possessivi e pronomi personali che fanno da riprese anaforiche, richiamando ora l’uno a ora l’altro dei due protagonisti. Indica per i seguenti pronomi se indicano l'adulto o il bambino: b) sua(2) – richiama l’adulto/richiama il bambino
richiama l'adulto
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binaria
richiama l'adulto
richiama il bambino
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TESTO D I conflitti tra i bambini e i genitori aumentano sensibilmente dopo il primo anno. Prima di questa età, l’autonomia molto ridotta del bambino permette di avere su di lui un controllo relativamente facile. Il bambino è dal canto suo più arrendevole che nel periodo successivo, proprio perché cosciente della sua impotenza e dipendenza dall’adulto e perché non ancora spinto così fortemente dalla sua biologica tendenza all’autonomia a opporsi alla volontà degli adulti. La conquista del camminare, con l’aumento di autonomia che ne consegue, in parte rallegra l’adulto ma in parte lo irrita. Pur diventando di giorno in giorno più autonomo, cosa insieme desiderata e temuta, il bambino interferirà più attivamente di prima nella sua vita, lo costringerà ad occuparsi dilui anche se non ne ha voglia e non gli lascerà più come un tempo la scelta se occuparsene o ignorarlo. Il rapporto, diventato più antagonistico, eccita l’autoritarismo dell’adulto. È molto diverso aver a che fare con un bambino che si può confinare nel suo lettino, nel recinto, nel passeggino, sempre ingabbiato e sotto controllo, piuttosto che con un bambino che scorrazza per casa toccando ogni cosa, che ha una mobilità tale che gli consente di sottrarsi tanto più spesso e con maggior successo alle imposizioni dell’adulto. (Tratto da: Elena Gianini Belotti, 1973, Dalla parte delle bambine. L’influenza dei condizionamenti sociali nella formazione del ruolo femminile nei primi anni di vita, Milano: Feltrinelli, pp. 58-59)
D1. Nel descrivere i rapporti tra adulto e bambino, vengono utilizzati aggettivi possessivi e pronomi personali che fanno da riprese anaforiche, richiamando ora l’uno a ora l’altro dei due protagonisti. Indica per i seguenti pronomi se indicano l'adulto o il bambino: c) lo(3) – richiama l’adulto/richiama il bambino
richiama l'adulto
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richiama l'adulto
richiama il bambino
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TESTO D I conflitti tra i bambini e i genitori aumentano sensibilmente dopo il primo anno. Prima di questa età, l’autonomia molto ridotta del bambino permette di avere su di lui un controllo relativamente facile. Il bambino è dal canto suo più arrendevole che nel periodo successivo, proprio perché cosciente della sua impotenza e dipendenza dall’adulto e perché non ancora spinto così fortemente dalla sua biologica tendenza all’autonomia a opporsi alla volontà degli adulti. La conquista del camminare, con l’aumento di autonomia che ne consegue, in parte rallegra l’adulto ma in parte lo irrita. Pur diventando di giorno in giorno più autonomo, cosa insieme desiderata e temuta, il bambino interferirà più attivamente di prima nella sua vita, lo costringerà ad occuparsi dilui anche se non ne ha voglia e non gli lascerà più come un tempo la scelta se occuparsene o ignorarlo. Il rapporto, diventato più antagonistico, eccita l’autoritarismo dell’adulto. È molto diverso aver a che fare con un bambino che si può confinare nel suo lettino, nel recinto, nel passeggino, sempre ingabbiato e sotto controllo, piuttosto che con un bambino che scorrazza per casa toccando ogni cosa, che ha una mobilità tale che gli consente di sottrarsi tanto più spesso e con maggior successo alle imposizioni dell’adulto. (Tratto da: Elena Gianini Belotti, 1973, Dalla parte delle bambine. L’influenza dei condizionamenti sociali nella formazione del ruolo femminile nei primi anni di vita, Milano: Feltrinelli, pp. 58-59)
D1. Nel descrivere i rapporti tra adulto e bambino, vengono utilizzati aggettivi possessivi e pronomi personali che fanno da riprese anaforiche, richiamando ora l’uno a ora l’altro dei due protagonisti. Indica per i seguenti pronomi se indicano l'adulto o il bambino: d) lui(4) – richiama l’adulto/richiama il bambino
adulto
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adulto
bambino
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TESTO D I conflitti tra i bambini e i genitori aumentano sensibilmente dopo il primo anno. Prima di questa età, l’autonomia molto ridotta del bambino permette di avere su di lui un controllo relativamente facile. Il bambino è dal canto suo più arrendevole che nel periodo successivo, proprio perché cosciente della sua impotenza e dipendenza dall’adulto e perché non ancora spinto così fortemente dalla sua biologica tendenza all’autonomia a opporsi alla volontà degli adulti. La conquista del camminare, con l’aumento di autonomia che ne consegue, in parte rallegra l’adulto ma in parte lo irrita. Pur diventando di giorno in giorno più autonomo, cosa insieme desiderata e temuta, il bambino interferirà più attivamente di prima nella sua vita, lo costringerà ad occuparsi dilui anche se non ne ha voglia e non gli lascerà più come un tempo la scelta se occuparsene o ignorarlo. Il rapporto, diventato più antagonistico, eccita l’autoritarismo dell’adulto. È molto diverso aver a che fare con un bambino che si può confinare nel suo lettino, nel recinto, nel passeggino, sempre ingabbiato e sotto controllo, piuttosto che con un bambino che scorrazza per casa toccando ogni cosa, che ha una mobilità tale che gli consente di sottrarsi tanto più spesso e con maggior successo alle imposizioni dell’adulto. (Tratto da: Elena Gianini Belotti, 1973, Dalla parte delle bambine. L’influenza dei condizionamenti sociali nella formazione del ruolo femminile nei primi anni di vita, Milano: Feltrinelli, pp. 58-59)
D1. Nel descrivere i rapporti tra adulto e bambino, vengono utilizzati aggettivi possessivi e pronomi personali che fanno da riprese anaforiche, richiamando ora l’uno a ora l’altro dei due protagonisti. Indica per i seguenti pronomi se indicano l'adulto o il bambino: e) gli(5) – richiama l’adulto/richiama il bambino
bambino
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adulto
bambino
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TESTO D I conflitti tra i bambini e i genitori aumentano sensibilmente dopo il primo anno. Prima di questa età, l’autonomia molto ridotta del bambino permette di avere su di lui un controllo relativamente facile. Il bambino è dal canto suo più arrendevole che nel periodo successivo, proprio perché cosciente della sua impotenza e dipendenza dall’adulto e perché non ancora spinto così fortemente dalla sua biologica tendenza all’autonomia a opporsi alla volontà degli adulti. La conquista del camminare, con l’aumento di autonomia che ne consegue, in parte rallegra l’adulto ma in parte lo irrita. Pur diventando di giorno in giorno più autonomo, cosa insieme desiderata e temuta, il bambino interferirà più attivamente di prima nella sua vita, lo costringerà ad occuparsi dilui anche se non ne ha voglia e non gli lascerà più come un tempo la scelta se occuparsene o ignorarlo. Il rapporto, diventato più antagonistico, eccita l’autoritarismo dell’adulto. È molto diverso aver a che fare con un bambino che si può confinare nel suo lettino, nel recinto, nel passeggino, sempre ingabbiato e sotto controllo, piuttosto che con un bambino che scorrazza per casa toccando ogni cosa, che ha una mobilità tale che gli consente di sottrarsi tanto più spesso e con maggior successo alle imposizioni dell’adulto. (Tratto da: Elena Gianini Belotti, 1973, Dalla parte delle bambine. L’influenza dei condizionamenti sociali nella formazione del ruolo femminile nei primi anni di vita, Milano: Feltrinelli, pp. 58-59)
D1. Nel descrivere i rapporti tra adulto e bambino, vengono utilizzati aggettivi possessivi e pronomi personali che fanno da riprese anaforiche, richiamando ora l’uno a ora l’altro dei due protagonisti. Indica per i seguenti pronomi se indicano l'adulto o il bambino: f) –ne(6) (occuparsene) – richiama l’adulto/richiama il bambino
bambino
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adulto
bambino
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TESTO D I conflitti tra i bambini e i genitori aumentano sensibilmente dopo il primo anno. Prima di questa età, l’autonomia molto ridotta del bambino permette di avere su di lui un controllo relativamente facile. Il bambino è dal canto suo più arrendevole che nel periodo successivo, proprio perché cosciente della sua impotenza e dipendenza dall’adulto e perché non ancora spinto così fortemente dalla sua biologica tendenza all’autonomia a opporsi alla volontà degli adulti. La conquista del camminare, con l’aumento di autonomia che ne consegue, in parte rallegra l’adulto ma in parte lo irrita. Pur diventando di giorno in giorno più autonomo, cosa insieme desiderata e temuta, il bambino interferirà più attivamente di prima nella sua vita, lo costringerà ad occuparsi dilui anche se non ne ha voglia e non gli lascerà più come un tempo la scelta se occuparsene o ignorarlo. Il rapporto, diventato più antagonistico, eccita l’autoritarismo dell’adulto. È molto diverso aver a che fare con un bambino che si può confinare nel suo lettino, nel recinto, nel passeggino, sempre ingabbiato e sotto controllo, piuttosto che con un bambino che scorrazza per casa toccando ogni cosa, che ha una mobilità tale che gli consente di sottrarsi tanto più spesso e con maggior successo alle imposizioni dell’adulto. (Tratto da: Elena Gianini Belotti, 1973, Dalla parte delle bambine. L’influenza dei condizionamenti sociali nella formazione del ruolo femminile nei primi anni di vita, Milano: Feltrinelli, pp. 58-59)
D1. Nel descrivere i rapporti tra adulto e bambino, vengono utilizzati aggettivi possessivi e pronomi personali che fanno da riprese anaforiche, richiamando ora l’uno a ora l’altro dei due protagonisti. Indica per i seguenti pronomi se indicano l'adulto o il bambino: g) –lo(7) (ignorarlo) – richiama l’adulto/richiama il bambino
bambino
['item_262_0.png']
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adulto
bambino
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TESTO D I conflitti tra i bambini e i genitori aumentano sensibilmente dopo il primo anno. Prima di questa età, l’autonomia molto ridotta del bambino permette di avere su di lui un controllo relativamente facile. Il bambino è dal canto suo più arrendevole che nel periodo successivo, proprio perché cosciente della sua impotenza e dipendenza dall’adulto e perché non ancora spinto così fortemente dalla sua biologica tendenza all’autonomia a opporsi alla volontà degli adulti. La conquista del camminare, con l’aumento di autonomia che ne consegue, in parte rallegra l’adulto ma in parte lo irrita. Pur diventando di giorno in giorno più autonomo, cosa insieme desiderata e temuta, il bambino interferirà più attivamente di prima nella sua vita, lo costringerà ad occuparsi dilui anche se non ne ha voglia e non gli lascerà più come un tempo la scelta se occuparsene o ignorarlo. Il rapporto, diventato più antagonistico, eccita l’autoritarismo dell’adulto. È molto diverso aver a che fare con un bambino che si può confinare nel suo lettino, nel recinto, nel passeggino, sempre ingabbiato e sotto controllo, piuttosto che con un bambino che scorrazza per casa toccando ogni cosa, che ha una mobilità tale che gli consente di sottrarsi tanto più spesso e con maggior successo alle imposizioni dell’adulto. (Tratto da: Elena Gianini Belotti, 1973, Dalla parte delle bambine. L’influenza dei condizionamenti sociali nella formazione del ruolo femminile nei primi anni di vita, Milano: Feltrinelli, pp. 58-59)
D3. Le virgole sono adoperate nel brano con varie funzioni. indica per ciascuna delle seguenti sequenze la funzione svolta dalla virgola. a) …. del camminare, con l’aumento ….
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TESTO D I conflitti tra i bambini e i genitori aumentano sensibilmente dopo il primo anno. Prima di questa età, l’autonomia molto ridotta del bambino permette di avere su di lui un controllo relativamente facile. Il bambino è dal canto suo più arrendevole che nel periodo successivo, proprio perché cosciente della sua impotenza e dipendenza dall’adulto e perché non ancora spinto così fortemente dalla sua biologica tendenza all’autonomia a opporsi alla volontà degli adulti. La conquista del camminare, con l’aumento di autonomia che ne consegue, in parte rallegra l’adulto ma in parte lo irrita. Pur diventando di giorno in giorno più autonomo, cosa insieme desiderata e temuta, il bambino interferirà più attivamente di prima nella sua vita, lo costringerà ad occuparsi dilui anche se non ne ha voglia e non gli lascerà più come un tempo la scelta se occuparsene o ignorarlo. Il rapporto, diventato più antagonistico, eccita l’autoritarismo dell’adulto. È molto diverso aver a che fare con un bambino che si può confinare nel suo lettino, nel recinto, nel passeggino, sempre ingabbiato e sotto controllo, piuttosto che con un bambino che scorrazza per casa toccando ogni cosa, che ha una mobilità tale che gli consente di sottrarsi tanto più spesso e con maggior successo alle imposizioni dell’adulto. (Tratto da: Elena Gianini Belotti, 1973, Dalla parte delle bambine. L’influenza dei condizionamenti sociali nella formazione del ruolo femminile nei primi anni di vita, Milano: Feltrinelli, pp. 58-59)
D3. Le virgole sono adoperate nel brano con varie funzioni. indica per ciascuna delle seguenti sequenze la funzione svolta dalla virgola. b) …. più autonomo, cosa insieme ….
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TESTO D I conflitti tra i bambini e i genitori aumentano sensibilmente dopo il primo anno. Prima di questa età, l’autonomia molto ridotta del bambino permette di avere su di lui un controllo relativamente facile. Il bambino è dal canto suo più arrendevole che nel periodo successivo, proprio perché cosciente della sua impotenza e dipendenza dall’adulto e perché non ancora spinto così fortemente dalla sua biologica tendenza all’autonomia a opporsi alla volontà degli adulti. La conquista del camminare, con l’aumento di autonomia che ne consegue, in parte rallegra l’adulto ma in parte lo irrita. Pur diventando di giorno in giorno più autonomo, cosa insieme desiderata e temuta, il bambino interferirà più attivamente di prima nella sua vita, lo costringerà ad occuparsi dilui anche se non ne ha voglia e non gli lascerà più come un tempo la scelta se occuparsene o ignorarlo. Il rapporto, diventato più antagonistico, eccita l’autoritarismo dell’adulto. È molto diverso aver a che fare con un bambino che si può confinare nel suo lettino, nel recinto, nel passeggino, sempre ingabbiato e sotto controllo, piuttosto che con un bambino che scorrazza per casa toccando ogni cosa, che ha una mobilità tale che gli consente di sottrarsi tanto più spesso e con maggior successo alle imposizioni dell’adulto. (Tratto da: Elena Gianini Belotti, 1973, Dalla parte delle bambine. L’influenza dei condizionamenti sociali nella formazione del ruolo femminile nei primi anni di vita, Milano: Feltrinelli, pp. 58-59)
D3. Le virgole sono adoperate nel brano con varie funzioni. indica per ciascuna delle seguenti sequenze la funzione svolta dalla virgola. c) …. sua vita, lo costringerà ….
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TESTO D I conflitti tra i bambini e i genitori aumentano sensibilmente dopo il primo anno. Prima di questa età, l’autonomia molto ridotta del bambino permette di avere su di lui un controllo relativamente facile. Il bambino è dal canto suo più arrendevole che nel periodo successivo, proprio perché cosciente della sua impotenza e dipendenza dall’adulto e perché non ancora spinto così fortemente dalla sua biologica tendenza all’autonomia a opporsi alla volontà degli adulti. La conquista del camminare, con l’aumento di autonomia che ne consegue, in parte rallegra l’adulto ma in parte lo irrita. Pur diventando di giorno in giorno più autonomo, cosa insieme desiderata e temuta, il bambino interferirà più attivamente di prima nella sua vita, lo costringerà ad occuparsi dilui anche se non ne ha voglia e non gli lascerà più come un tempo la scelta se occuparsene o ignorarlo. Il rapporto, diventato più antagonistico, eccita l’autoritarismo dell’adulto. È molto diverso aver a che fare con un bambino che si può confinare nel suo lettino, nel recinto, nel passeggino, sempre ingabbiato e sotto controllo, piuttosto che con un bambino che scorrazza per casa toccando ogni cosa, che ha una mobilità tale che gli consente di sottrarsi tanto più spesso e con maggior successo alle imposizioni dell’adulto. (Tratto da: Elena Gianini Belotti, 1973, Dalla parte delle bambine. L’influenza dei condizionamenti sociali nella formazione del ruolo femminile nei primi anni di vita, Milano: Feltrinelli, pp. 58-59)
D3. Le virgole sono adoperate nel brano con varie funzioni. indica per ciascuna delle seguenti sequenze la funzione svolta dalla virgola. d) …. rapporto, diventato ….
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TESTO D I conflitti tra i bambini e i genitori aumentano sensibilmente dopo il primo anno. Prima di questa età, l’autonomia molto ridotta del bambino permette di avere su di lui un controllo relativamente facile. Il bambino è dal canto suo più arrendevole che nel periodo successivo, proprio perché cosciente della sua impotenza e dipendenza dall’adulto e perché non ancora spinto così fortemente dalla sua biologica tendenza all’autonomia a opporsi alla volontà degli adulti. La conquista del camminare, con l’aumento di autonomia che ne consegue, in parte rallegra l’adulto ma in parte lo irrita. Pur diventando di giorno in giorno più autonomo, cosa insieme desiderata e temuta, il bambino interferirà più attivamente di prima nella sua vita, lo costringerà ad occuparsi dilui anche se non ne ha voglia e non gli lascerà più come un tempo la scelta se occuparsene o ignorarlo. Il rapporto, diventato più antagonistico, eccita l’autoritarismo dell’adulto. È molto diverso aver a che fare con un bambino che si può confinare nel suo lettino, nel recinto, nel passeggino, sempre ingabbiato e sotto controllo, piuttosto che con un bambino che scorrazza per casa toccando ogni cosa, che ha una mobilità tale che gli consente di sottrarsi tanto più spesso e con maggior successo alle imposizioni dell’adulto. (Tratto da: Elena Gianini Belotti, 1973, Dalla parte delle bambine. L’influenza dei condizionamenti sociali nella formazione del ruolo femminile nei primi anni di vita, Milano: Feltrinelli, pp. 58-59)
D3. Le virgole sono adoperate nel brano con varie funzioni. indica per ciascuna delle seguenti sequenze la funzione svolta dalla virgola. e) …. suo lettino, nel recinto ….
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TESTO D I conflitti tra i bambini e i genitori aumentano sensibilmente dopo il primo anno. Prima di questa età, l’autonomia molto ridotta del bambino permette di avere su di lui un controllo relativamente facile. Il bambino è dal canto suo più arrendevole che nel periodo successivo, proprio perché cosciente della sua impotenza e dipendenza dall’adulto e perché non ancora spinto così fortemente dalla sua biologica tendenza all’autonomia a opporsi alla volontà degli adulti. La conquista del camminare, con l’aumento di autonomia che ne consegue, in parte rallegra l’adulto ma in parte lo irrita. Pur diventando di giorno in giorno più autonomo, cosa insieme desiderata e temuta, il bambino interferirà più attivamente di prima nella sua vita, lo costringerà ad occuparsi dilui anche se non ne ha voglia e non gli lascerà più come un tempo la scelta se occuparsene o ignorarlo. Il rapporto, diventato più antagonistico, eccita l’autoritarismo dell’adulto. È molto diverso aver a che fare con un bambino che si può confinare nel suo lettino, nel recinto, nel passeggino, sempre ingabbiato e sotto controllo, piuttosto che con un bambino che scorrazza per casa toccando ogni cosa, che ha una mobilità tale che gli consente di sottrarsi tanto più spesso e con maggior successo alle imposizioni dell’adulto. (Tratto da: Elena Gianini Belotti, 1973, Dalla parte delle bambine. L’influenza dei condizionamenti sociali nella formazione del ruolo femminile nei primi anni di vita, Milano: Feltrinelli, pp. 58-59)
D3. \Le virgole sono adoperate nel brano con varie funzioni. indica per ciascuna delle seguenti sequenze la funzione svolta dalla virgola. f) …. ogni cosa, che ha una mobilità ….
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NOVEMBRE Una casa solitaria in mezzo alla campagna, uomini e donne nei campi per la semina. Pomeriggio di novembre, giorno di sole caldo. Un gatto bianco pezzato di nero sonnecchiava al sole sul muretto di un pozzo, di fronte a un fienile. Tutto sembrava tranquillo. Sembrava, perché un topo si era affacciato da una grata della costruzione, stava su un mattone di terracotta e tratteneva tra le zampe una corda. Anzi aveva fatto in fondo alla corda un cappio, cioè un anello attraverso cui poteva passare una testa, e lo stava calando giù, verso il gatto. Ma che faceva quel pazzo di topo? Voleva catturare il gatto? Forse no, perché appeso alla cordicella c'era un minuscolo campanello. Ma sì, voleva mettere un campanello al collo del gatto, approfittando del fatto che stava dormendo. Perché mai quel campanello? Voleva preparare il gatto per una festa? Tentativo rischioso più per il topo che per il gatto, è logico. Ma il topo era abile. La corda calò con lentezza, in modo che il campanello non suonasse. Dondolava, poco però e non suonava. Bravo topo. Il cappio era ormai dinnanzi alla testa del gatto, bastava una mossa decisa e zac! Il gatto sarebbe rimasto imprigionato, preso per il collo e... Però il nostro topo, per quanto ingegnoso, non aveva fatto bene i conti, non aveva considerato un particolare, i baffi del gatto. Baffi quasi invisibili che basta toccarli per far sussultare l’animale. E infatti accadde proprio questo. La corda oscillante sfiorò uno dei baffi, il gatto si svegliò, vide e capì tutto nella frazione di un secondo. Fece un salto, per poco non scivolava nel pozzo, ma si aggrappò alla corda e come un giocoliere saltò di qua e di là dei bordi e finalmente fu a terra. Il topo deluso tirò a sé in fretta la corda, ora il campanello suonò, un suono quasi di allarme, quasi di fallimento. — Din din, din din! Il gatto ritrovò la calma, si compose e guardò in alto verso il topo. — Perché volevi mettermi quel coso al collo? — Per sicurezza! Sai muoverti così silenzioso che non ti sentiamo mai arrivare, bestiaccia. E la settimana scorsa ti sei mangiato due dei miei fratelli, brutto assassino. Volevo metterti al collo un campanello per sentirti arrivare e poterci nascondere! — Quanti siete in famiglia, voglio dire lì nel fienile? — chiese il gatto con aria distratta, come se guardasse una farfalla posata su una siepe di rose. — Siamo rimasti solo 25, compresi mamma e babbo! Disgraziato! II gatto si passò la lingua sui baffi, scosse le orecchie come per scacciare alcune parole che non voleva sentire. Aveva l’aria di chi continua a guardare una farfalla, invece si stava facendo i suoi conti. — Hum, buoni! — concluse — Avrò ottime colazioni a portata di mano per qualche settimana allora! — Cattivo! — squittì il topo. E con le lacrime agli occhi rientrò nel fienile. Il topo andò subito a raccontare alla sua famiglia del fallito tentativo e dei terribili propositi del gatto. Il giorno dopo accadde però un fatto strano. La massaia andò al mercato e tornò con scatolette e croccantini per gatti e glieli mise in una scodella. Il micio bianco pezzato di nero mangiò tutto. Ma ora con la pancia piena si sentiva pesante, e si dimenticò dei topi, non si ricordò nemmeno più che esistessero. Questo per giorni e giorni. Nel fienile i topi stupiti osservavano il nuovo comportamento del gatto. Lo videro ingrassare e farsi sempre più pigro. Cosicché dopo un mesetto conclusero: — Si sarà fatto buono! (Tratto e adattato da: E. Detti e R. Innocenti, Favole di campagna, Roma, Gallucci editore, 2015)
A1. Dopo aver letto queste prime righe, immagina di dover disegnare la scena iniziale del racconto. Indica quali dei seguenti elementi servono per disegnare questa scena scrivendo si o no per ognuno. a) Casa – sì/no
si
['item_265_0.png']
2018_02_SNV_A
binaria
si
no
null
NOVEMBRE Una casa solitaria in mezzo alla campagna, uomini e donne nei campi per la semina. Pomeriggio di novembre, giorno di sole caldo. Un gatto bianco pezzato di nero sonnecchiava al sole sul muretto di un pozzo, di fronte a un fienile. Tutto sembrava tranquillo. Sembrava, perché un topo si era affacciato da una grata della costruzione, stava su un mattone di terracotta e tratteneva tra le zampe una corda. Anzi aveva fatto in fondo alla corda un cappio, cioè un anello attraverso cui poteva passare una testa, e lo stava calando giù, verso il gatto. Ma che faceva quel pazzo di topo? Voleva catturare il gatto? Forse no, perché appeso alla cordicella c'era un minuscolo campanello. Ma sì, voleva mettere un campanello al collo del gatto, approfittando del fatto che stava dormendo. Perché mai quel campanello? Voleva preparare il gatto per una festa? Tentativo rischioso più per il topo che per il gatto, è logico. Ma il topo era abile. La corda calò con lentezza, in modo che il campanello non suonasse. Dondolava, poco però e non suonava. Bravo topo. Il cappio era ormai dinnanzi alla testa del gatto, bastava una mossa decisa e zac! Il gatto sarebbe rimasto imprigionato, preso per il collo e... Però il nostro topo, per quanto ingegnoso, non aveva fatto bene i conti, non aveva considerato un particolare, i baffi del gatto. Baffi quasi invisibili che basta toccarli per far sussultare l’animale. E infatti accadde proprio questo. La corda oscillante sfiorò uno dei baffi, il gatto si svegliò, vide e capì tutto nella frazione di un secondo. Fece un salto, per poco non scivolava nel pozzo, ma si aggrappò alla corda e come un giocoliere saltò di qua e di là dei bordi e finalmente fu a terra. Il topo deluso tirò a sé in fretta la corda, ora il campanello suonò, un suono quasi di allarme, quasi di fallimento. — Din din, din din! Il gatto ritrovò la calma, si compose e guardò in alto verso il topo. — Perché volevi mettermi quel coso al collo? — Per sicurezza! Sai muoverti così silenzioso che non ti sentiamo mai arrivare, bestiaccia. E la settimana scorsa ti sei mangiato due dei miei fratelli, brutto assassino. Volevo metterti al collo un campanello per sentirti arrivare e poterci nascondere! — Quanti siete in famiglia, voglio dire lì nel fienile? — chiese il gatto con aria distratta, come se guardasse una farfalla posata su una siepe di rose. — Siamo rimasti solo 25, compresi mamma e babbo! Disgraziato! II gatto si passò la lingua sui baffi, scosse le orecchie come per scacciare alcune parole che non voleva sentire. Aveva l’aria di chi continua a guardare una farfalla, invece si stava facendo i suoi conti. — Hum, buoni! — concluse — Avrò ottime colazioni a portata di mano per qualche settimana allora! — Cattivo! — squittì il topo. E con le lacrime agli occhi rientrò nel fienile. Il topo andò subito a raccontare alla sua famiglia del fallito tentativo e dei terribili propositi del gatto. Il giorno dopo accadde però un fatto strano. La massaia andò al mercato e tornò con scatolette e croccantini per gatti e glieli mise in una scodella. Il micio bianco pezzato di nero mangiò tutto. Ma ora con la pancia piena si sentiva pesante, e si dimenticò dei topi, non si ricordò nemmeno più che esistessero. Questo per giorni e giorni. Nel fienile i topi stupiti osservavano il nuovo comportamento del gatto. Lo videro ingrassare e farsi sempre più pigro. Cosicché dopo un mesetto conclusero: — Si sarà fatto buono! (Tratto e adattato da: E. Detti e R. Innocenti, Favole di campagna, Roma, Gallucci editore, 2015)
A1. Dopo aver letto queste prime righe, immagina di dover disegnare la scena iniziale del racconto. Indica quali dei seguenti elementi servono per disegnare questa scena scrivendo si o no per ognuno. b) Bambini – sì/no
no
['item_265_0.png']
2018_02_SNV_A
binaria
si
no
null
NOVEMBRE Una casa solitaria in mezzo alla campagna, uomini e donne nei campi per la semina. Pomeriggio di novembre, giorno di sole caldo. Un gatto bianco pezzato di nero sonnecchiava al sole sul muretto di un pozzo, di fronte a un fienile. Tutto sembrava tranquillo. Sembrava, perché un topo si era affacciato da una grata della costruzione, stava su un mattone di terracotta e tratteneva tra le zampe una corda. Anzi aveva fatto in fondo alla corda un cappio, cioè un anello attraverso cui poteva passare una testa, e lo stava calando giù, verso il gatto. Ma che faceva quel pazzo di topo? Voleva catturare il gatto? Forse no, perché appeso alla cordicella c'era un minuscolo campanello. Ma sì, voleva mettere un campanello al collo del gatto, approfittando del fatto che stava dormendo. Perché mai quel campanello? Voleva preparare il gatto per una festa? Tentativo rischioso più per il topo che per il gatto, è logico. Ma il topo era abile. La corda calò con lentezza, in modo che il campanello non suonasse. Dondolava, poco però e non suonava. Bravo topo. Il cappio era ormai dinnanzi alla testa del gatto, bastava una mossa decisa e zac! Il gatto sarebbe rimasto imprigionato, preso per il collo e... Però il nostro topo, per quanto ingegnoso, non aveva fatto bene i conti, non aveva considerato un particolare, i baffi del gatto. Baffi quasi invisibili che basta toccarli per far sussultare l’animale. E infatti accadde proprio questo. La corda oscillante sfiorò uno dei baffi, il gatto si svegliò, vide e capì tutto nella frazione di un secondo. Fece un salto, per poco non scivolava nel pozzo, ma si aggrappò alla corda e come un giocoliere saltò di qua e di là dei bordi e finalmente fu a terra. Il topo deluso tirò a sé in fretta la corda, ora il campanello suonò, un suono quasi di allarme, quasi di fallimento. — Din din, din din! Il gatto ritrovò la calma, si compose e guardò in alto verso il topo. — Perché volevi mettermi quel coso al collo? — Per sicurezza! Sai muoverti così silenzioso che non ti sentiamo mai arrivare, bestiaccia. E la settimana scorsa ti sei mangiato due dei miei fratelli, brutto assassino. Volevo metterti al collo un campanello per sentirti arrivare e poterci nascondere! — Quanti siete in famiglia, voglio dire lì nel fienile? — chiese il gatto con aria distratta, come se guardasse una farfalla posata su una siepe di rose. — Siamo rimasti solo 25, compresi mamma e babbo! Disgraziato! II gatto si passò la lingua sui baffi, scosse le orecchie come per scacciare alcune parole che non voleva sentire. Aveva l’aria di chi continua a guardare una farfalla, invece si stava facendo i suoi conti. — Hum, buoni! — concluse — Avrò ottime colazioni a portata di mano per qualche settimana allora! — Cattivo! — squittì il topo. E con le lacrime agli occhi rientrò nel fienile. Il topo andò subito a raccontare alla sua famiglia del fallito tentativo e dei terribili propositi del gatto. Il giorno dopo accadde però un fatto strano. La massaia andò al mercato e tornò con scatolette e croccantini per gatti e glieli mise in una scodella. Il micio bianco pezzato di nero mangiò tutto. Ma ora con la pancia piena si sentiva pesante, e si dimenticò dei topi, non si ricordò nemmeno più che esistessero. Questo per giorni e giorni. Nel fienile i topi stupiti osservavano il nuovo comportamento del gatto. Lo videro ingrassare e farsi sempre più pigro. Cosicché dopo un mesetto conclusero: — Si sarà fatto buono! (Tratto e adattato da: E. Detti e R. Innocenti, Favole di campagna, Roma, Gallucci editore, 2015)
A1. Dopo aver letto queste prime righe, immagina di dover disegnare la scena iniziale del racconto. Indica quali dei seguenti elementi servono per disegnare questa scena scrivendo si o no per ognuno. c) Sole – sì/no
si
['item_265_0.png']
2018_02_SNV_A
binaria
si
no
null
NOVEMBRE Una casa solitaria in mezzo alla campagna, uomini e donne nei campi per la semina. Pomeriggio di novembre, giorno di sole caldo. Un gatto bianco pezzato di nero sonnecchiava al sole sul muretto di un pozzo, di fronte a un fienile. Tutto sembrava tranquillo. Sembrava, perché un topo si era affacciato da una grata della costruzione, stava su un mattone di terracotta e tratteneva tra le zampe una corda. Anzi aveva fatto in fondo alla corda un cappio, cioè un anello attraverso cui poteva passare una testa, e lo stava calando giù, verso il gatto. Ma che faceva quel pazzo di topo? Voleva catturare il gatto? Forse no, perché appeso alla cordicella c'era un minuscolo campanello. Ma sì, voleva mettere un campanello al collo del gatto, approfittando del fatto che stava dormendo. Perché mai quel campanello? Voleva preparare il gatto per una festa? Tentativo rischioso più per il topo che per il gatto, è logico. Ma il topo era abile. La corda calò con lentezza, in modo che il campanello non suonasse. Dondolava, poco però e non suonava. Bravo topo. Il cappio era ormai dinnanzi alla testa del gatto, bastava una mossa decisa e zac! Il gatto sarebbe rimasto imprigionato, preso per il collo e... Però il nostro topo, per quanto ingegnoso, non aveva fatto bene i conti, non aveva considerato un particolare, i baffi del gatto. Baffi quasi invisibili che basta toccarli per far sussultare l’animale. E infatti accadde proprio questo. La corda oscillante sfiorò uno dei baffi, il gatto si svegliò, vide e capì tutto nella frazione di un secondo. Fece un salto, per poco non scivolava nel pozzo, ma si aggrappò alla corda e come un giocoliere saltò di qua e di là dei bordi e finalmente fu a terra. Il topo deluso tirò a sé in fretta la corda, ora il campanello suonò, un suono quasi di allarme, quasi di fallimento. — Din din, din din! Il gatto ritrovò la calma, si compose e guardò in alto verso il topo. — Perché volevi mettermi quel coso al collo? — Per sicurezza! Sai muoverti così silenzioso che non ti sentiamo mai arrivare, bestiaccia. E la settimana scorsa ti sei mangiato due dei miei fratelli, brutto assassino. Volevo metterti al collo un campanello per sentirti arrivare e poterci nascondere! — Quanti siete in famiglia, voglio dire lì nel fienile? — chiese il gatto con aria distratta, come se guardasse una farfalla posata su una siepe di rose. — Siamo rimasti solo 25, compresi mamma e babbo! Disgraziato! II gatto si passò la lingua sui baffi, scosse le orecchie come per scacciare alcune parole che non voleva sentire. Aveva l’aria di chi continua a guardare una farfalla, invece si stava facendo i suoi conti. — Hum, buoni! — concluse — Avrò ottime colazioni a portata di mano per qualche settimana allora! — Cattivo! — squittì il topo. E con le lacrime agli occhi rientrò nel fienile. Il topo andò subito a raccontare alla sua famiglia del fallito tentativo e dei terribili propositi del gatto. Il giorno dopo accadde però un fatto strano. La massaia andò al mercato e tornò con scatolette e croccantini per gatti e glieli mise in una scodella. Il micio bianco pezzato di nero mangiò tutto. Ma ora con la pancia piena si sentiva pesante, e si dimenticò dei topi, non si ricordò nemmeno più che esistessero. Questo per giorni e giorni. Nel fienile i topi stupiti osservavano il nuovo comportamento del gatto. Lo videro ingrassare e farsi sempre più pigro. Cosicché dopo un mesetto conclusero: — Si sarà fatto buono! (Tratto e adattato da: E. Detti e R. Innocenti, Favole di campagna, Roma, Gallucci editore, 2015)
A1. Dopo aver letto queste prime righe, immagina di dover disegnare la scena iniziale del racconto. Indica quali dei seguenti elementi servono per disegnare questa scena scrivendo si o no per ognuno. d) Fienile – sì/no
si
['item_265_0.png']
2018_02_SNV_A
binaria
si
no
null
NOVEMBRE Una casa solitaria in mezzo alla campagna, uomini e donne nei campi per la semina. Pomeriggio di novembre, giorno di sole caldo. Un gatto bianco pezzato di nero sonnecchiava al sole sul muretto di un pozzo, di fronte a un fienile. Tutto sembrava tranquillo. Sembrava, perché un topo si era affacciato da una grata della costruzione, stava su un mattone di terracotta e tratteneva tra le zampe una corda. Anzi aveva fatto in fondo alla corda un cappio, cioè un anello attraverso cui poteva passare una testa, e lo stava calando giù, verso il gatto. Ma che faceva quel pazzo di topo? Voleva catturare il gatto? Forse no, perché appeso alla cordicella c'era un minuscolo campanello. Ma sì, voleva mettere un campanello al collo del gatto, approfittando del fatto che stava dormendo. Perché mai quel campanello? Voleva preparare il gatto per una festa? Tentativo rischioso più per il topo che per il gatto, è logico. Ma il topo era abile. La corda calò con lentezza, in modo che il campanello non suonasse. Dondolava, poco però e non suonava. Bravo topo. Il cappio era ormai dinnanzi alla testa del gatto, bastava una mossa decisa e zac! Il gatto sarebbe rimasto imprigionato, preso per il collo e... Però il nostro topo, per quanto ingegnoso, non aveva fatto bene i conti, non aveva considerato un particolare, i baffi del gatto. Baffi quasi invisibili che basta toccarli per far sussultare l’animale. E infatti accadde proprio questo. La corda oscillante sfiorò uno dei baffi, il gatto si svegliò, vide e capì tutto nella frazione di un secondo. Fece un salto, per poco non scivolava nel pozzo, ma si aggrappò alla corda e come un giocoliere saltò di qua e di là dei bordi e finalmente fu a terra. Il topo deluso tirò a sé in fretta la corda, ora il campanello suonò, un suono quasi di allarme, quasi di fallimento. — Din din, din din! Il gatto ritrovò la calma, si compose e guardò in alto verso il topo. — Perché volevi mettermi quel coso al collo? — Per sicurezza! Sai muoverti così silenzioso che non ti sentiamo mai arrivare, bestiaccia. E la settimana scorsa ti sei mangiato due dei miei fratelli, brutto assassino. Volevo metterti al collo un campanello per sentirti arrivare e poterci nascondere! — Quanti siete in famiglia, voglio dire lì nel fienile? — chiese il gatto con aria distratta, come se guardasse una farfalla posata su una siepe di rose. — Siamo rimasti solo 25, compresi mamma e babbo! Disgraziato! II gatto si passò la lingua sui baffi, scosse le orecchie come per scacciare alcune parole che non voleva sentire. Aveva l’aria di chi continua a guardare una farfalla, invece si stava facendo i suoi conti. — Hum, buoni! — concluse — Avrò ottime colazioni a portata di mano per qualche settimana allora! — Cattivo! — squittì il topo. E con le lacrime agli occhi rientrò nel fienile. Il topo andò subito a raccontare alla sua famiglia del fallito tentativo e dei terribili propositi del gatto. Il giorno dopo accadde però un fatto strano. La massaia andò al mercato e tornò con scatolette e croccantini per gatti e glieli mise in una scodella. Il micio bianco pezzato di nero mangiò tutto. Ma ora con la pancia piena si sentiva pesante, e si dimenticò dei topi, non si ricordò nemmeno più che esistessero. Questo per giorni e giorni. Nel fienile i topi stupiti osservavano il nuovo comportamento del gatto. Lo videro ingrassare e farsi sempre più pigro. Cosicché dopo un mesetto conclusero: — Si sarà fatto buono! (Tratto e adattato da: E. Detti e R. Innocenti, Favole di campagna, Roma, Gallucci editore, 2015)
A1. Dopo aver letto queste prime righe, immagina di dover disegnare la scena iniziale del racconto. Indica quali dei seguenti elementi servono per disegnare questa scena scrivendo si o no per ognuno. e) Pozzo – sì/no
si
['item_265_0.png']
2018_02_SNV_A
binaria
si
no
null
NOVEMBRE Una casa solitaria in mezzo alla campagna, uomini e donne nei campi per la semina. Pomeriggio di novembre, giorno di sole caldo. Un gatto bianco pezzato di nero sonnecchiava al sole sul muretto di un pozzo, di fronte a un fienile. Tutto sembrava tranquillo. Sembrava, perché un topo si era affacciato da una grata della costruzione, stava su un mattone di terracotta e tratteneva tra le zampe una corda. Anzi aveva fatto in fondo alla corda un cappio, cioè un anello attraverso cui poteva passare una testa, e lo stava calando giù, verso il gatto. Ma che faceva quel pazzo di topo? Voleva catturare il gatto? Forse no, perché appeso alla cordicella c'era un minuscolo campanello. Ma sì, voleva mettere un campanello al collo del gatto, approfittando del fatto che stava dormendo. Perché mai quel campanello? Voleva preparare il gatto per una festa? Tentativo rischioso più per il topo che per il gatto, è logico. Ma il topo era abile. La corda calò con lentezza, in modo che il campanello non suonasse. Dondolava, poco però e non suonava. Bravo topo. Il cappio era ormai dinnanzi alla testa del gatto, bastava una mossa decisa e zac! Il gatto sarebbe rimasto imprigionato, preso per il collo e... Però il nostro topo, per quanto ingegnoso, non aveva fatto bene i conti, non aveva considerato un particolare, i baffi del gatto. Baffi quasi invisibili che basta toccarli per far sussultare l’animale. E infatti accadde proprio questo. La corda oscillante sfiorò uno dei baffi, il gatto si svegliò, vide e capì tutto nella frazione di un secondo. Fece un salto, per poco non scivolava nel pozzo, ma si aggrappò alla corda e come un giocoliere saltò di qua e di là dei bordi e finalmente fu a terra. Il topo deluso tirò a sé in fretta la corda, ora il campanello suonò, un suono quasi di allarme, quasi di fallimento. — Din din, din din! Il gatto ritrovò la calma, si compose e guardò in alto verso il topo. — Perché volevi mettermi quel coso al collo? — Per sicurezza! Sai muoverti così silenzioso che non ti sentiamo mai arrivare, bestiaccia. E la settimana scorsa ti sei mangiato due dei miei fratelli, brutto assassino. Volevo metterti al collo un campanello per sentirti arrivare e poterci nascondere! — Quanti siete in famiglia, voglio dire lì nel fienile? — chiese il gatto con aria distratta, come se guardasse una farfalla posata su una siepe di rose. — Siamo rimasti solo 25, compresi mamma e babbo! Disgraziato! II gatto si passò la lingua sui baffi, scosse le orecchie come per scacciare alcune parole che non voleva sentire. Aveva l’aria di chi continua a guardare una farfalla, invece si stava facendo i suoi conti. — Hum, buoni! — concluse — Avrò ottime colazioni a portata di mano per qualche settimana allora! — Cattivo! — squittì il topo. E con le lacrime agli occhi rientrò nel fienile. Il topo andò subito a raccontare alla sua famiglia del fallito tentativo e dei terribili propositi del gatto. Il giorno dopo accadde però un fatto strano. La massaia andò al mercato e tornò con scatolette e croccantini per gatti e glieli mise in una scodella. Il micio bianco pezzato di nero mangiò tutto. Ma ora con la pancia piena si sentiva pesante, e si dimenticò dei topi, non si ricordò nemmeno più che esistessero. Questo per giorni e giorni. Nel fienile i topi stupiti osservavano il nuovo comportamento del gatto. Lo videro ingrassare e farsi sempre più pigro. Cosicché dopo un mesetto conclusero: — Si sarà fatto buono! (Tratto e adattato da: E. Detti e R. Innocenti, Favole di campagna, Roma, Gallucci editore, 2015)
A2. Che cosa si dice del gatto nelle prime righe del racconto? Indica se ognuna delle seguenti affermazioni è stata menzionata indicando si o no. a) Si dice come è il gatto – sì/no
si
['item_266_0.png']
2018_02_SNV_A
binaria
si
no
null
NOVEMBRE Una casa solitaria in mezzo alla campagna, uomini e donne nei campi per la semina. Pomeriggio di novembre, giorno di sole caldo. Un gatto bianco pezzato di nero sonnecchiava al sole sul muretto di un pozzo, di fronte a un fienile. Tutto sembrava tranquillo. Sembrava, perché un topo si era affacciato da una grata della costruzione, stava su un mattone di terracotta e tratteneva tra le zampe una corda. Anzi aveva fatto in fondo alla corda un cappio, cioè un anello attraverso cui poteva passare una testa, e lo stava calando giù, verso il gatto. Ma che faceva quel pazzo di topo? Voleva catturare il gatto? Forse no, perché appeso alla cordicella c'era un minuscolo campanello. Ma sì, voleva mettere un campanello al collo del gatto, approfittando del fatto che stava dormendo. Perché mai quel campanello? Voleva preparare il gatto per una festa? Tentativo rischioso più per il topo che per il gatto, è logico. Ma il topo era abile. La corda calò con lentezza, in modo che il campanello non suonasse. Dondolava, poco però e non suonava. Bravo topo. Il cappio era ormai dinnanzi alla testa del gatto, bastava una mossa decisa e zac! Il gatto sarebbe rimasto imprigionato, preso per il collo e... Però il nostro topo, per quanto ingegnoso, non aveva fatto bene i conti, non aveva considerato un particolare, i baffi del gatto. Baffi quasi invisibili che basta toccarli per far sussultare l’animale. E infatti accadde proprio questo. La corda oscillante sfiorò uno dei baffi, il gatto si svegliò, vide e capì tutto nella frazione di un secondo. Fece un salto, per poco non scivolava nel pozzo, ma si aggrappò alla corda e come un giocoliere saltò di qua e di là dei bordi e finalmente fu a terra. Il topo deluso tirò a sé in fretta la corda, ora il campanello suonò, un suono quasi di allarme, quasi di fallimento. — Din din, din din! Il gatto ritrovò la calma, si compose e guardò in alto verso il topo. — Perché volevi mettermi quel coso al collo? — Per sicurezza! Sai muoverti così silenzioso che non ti sentiamo mai arrivare, bestiaccia. E la settimana scorsa ti sei mangiato due dei miei fratelli, brutto assassino. Volevo metterti al collo un campanello per sentirti arrivare e poterci nascondere! — Quanti siete in famiglia, voglio dire lì nel fienile? — chiese il gatto con aria distratta, come se guardasse una farfalla posata su una siepe di rose. — Siamo rimasti solo 25, compresi mamma e babbo! Disgraziato! II gatto si passò la lingua sui baffi, scosse le orecchie come per scacciare alcune parole che non voleva sentire. Aveva l’aria di chi continua a guardare una farfalla, invece si stava facendo i suoi conti. — Hum, buoni! — concluse — Avrò ottime colazioni a portata di mano per qualche settimana allora! — Cattivo! — squittì il topo. E con le lacrime agli occhi rientrò nel fienile. Il topo andò subito a raccontare alla sua famiglia del fallito tentativo e dei terribili propositi del gatto. Il giorno dopo accadde però un fatto strano. La massaia andò al mercato e tornò con scatolette e croccantini per gatti e glieli mise in una scodella. Il micio bianco pezzato di nero mangiò tutto. Ma ora con la pancia piena si sentiva pesante, e si dimenticò dei topi, non si ricordò nemmeno più che esistessero. Questo per giorni e giorni. Nel fienile i topi stupiti osservavano il nuovo comportamento del gatto. Lo videro ingrassare e farsi sempre più pigro. Cosicché dopo un mesetto conclusero: — Si sarà fatto buono! (Tratto e adattato da: E. Detti e R. Innocenti, Favole di campagna, Roma, Gallucci editore, 2015)
A2. Che cosa si dice del gatto nelle prime righe del racconto? Indica se ognuna delle seguenti affermazioni è stata menzionata indicando si o no. b) Si dice chi è il gatto – sì/no
no
['item_266_0.png']
2018_02_SNV_A
binaria
si
no
null
NOVEMBRE Una casa solitaria in mezzo alla campagna, uomini e donne nei campi per la semina. Pomeriggio di novembre, giorno di sole caldo. Un gatto bianco pezzato di nero sonnecchiava al sole sul muretto di un pozzo, di fronte a un fienile. Tutto sembrava tranquillo. Sembrava, perché un topo si era affacciato da una grata della costruzione, stava su un mattone di terracotta e tratteneva tra le zampe una corda. Anzi aveva fatto in fondo alla corda un cappio, cioè un anello attraverso cui poteva passare una testa, e lo stava calando giù, verso il gatto. Ma che faceva quel pazzo di topo? Voleva catturare il gatto? Forse no, perché appeso alla cordicella c'era un minuscolo campanello. Ma sì, voleva mettere un campanello al collo del gatto, approfittando del fatto che stava dormendo. Perché mai quel campanello? Voleva preparare il gatto per una festa? Tentativo rischioso più per il topo che per il gatto, è logico. Ma il topo era abile. La corda calò con lentezza, in modo che il campanello non suonasse. Dondolava, poco però e non suonava. Bravo topo. Il cappio era ormai dinnanzi alla testa del gatto, bastava una mossa decisa e zac! Il gatto sarebbe rimasto imprigionato, preso per il collo e... Però il nostro topo, per quanto ingegnoso, non aveva fatto bene i conti, non aveva considerato un particolare, i baffi del gatto. Baffi quasi invisibili che basta toccarli per far sussultare l’animale. E infatti accadde proprio questo. La corda oscillante sfiorò uno dei baffi, il gatto si svegliò, vide e capì tutto nella frazione di un secondo. Fece un salto, per poco non scivolava nel pozzo, ma si aggrappò alla corda e come un giocoliere saltò di qua e di là dei bordi e finalmente fu a terra. Il topo deluso tirò a sé in fretta la corda, ora il campanello suonò, un suono quasi di allarme, quasi di fallimento. — Din din, din din! Il gatto ritrovò la calma, si compose e guardò in alto verso il topo. — Perché volevi mettermi quel coso al collo? — Per sicurezza! Sai muoverti così silenzioso che non ti sentiamo mai arrivare, bestiaccia. E la settimana scorsa ti sei mangiato due dei miei fratelli, brutto assassino. Volevo metterti al collo un campanello per sentirti arrivare e poterci nascondere! — Quanti siete in famiglia, voglio dire lì nel fienile? — chiese il gatto con aria distratta, come se guardasse una farfalla posata su una siepe di rose. — Siamo rimasti solo 25, compresi mamma e babbo! Disgraziato! II gatto si passò la lingua sui baffi, scosse le orecchie come per scacciare alcune parole che non voleva sentire. Aveva l’aria di chi continua a guardare una farfalla, invece si stava facendo i suoi conti. — Hum, buoni! — concluse — Avrò ottime colazioni a portata di mano per qualche settimana allora! — Cattivo! — squittì il topo. E con le lacrime agli occhi rientrò nel fienile. Il topo andò subito a raccontare alla sua famiglia del fallito tentativo e dei terribili propositi del gatto. Il giorno dopo accadde però un fatto strano. La massaia andò al mercato e tornò con scatolette e croccantini per gatti e glieli mise in una scodella. Il micio bianco pezzato di nero mangiò tutto. Ma ora con la pancia piena si sentiva pesante, e si dimenticò dei topi, non si ricordò nemmeno più che esistessero. Questo per giorni e giorni. Nel fienile i topi stupiti osservavano il nuovo comportamento del gatto. Lo videro ingrassare e farsi sempre più pigro. Cosicché dopo un mesetto conclusero: — Si sarà fatto buono! (Tratto e adattato da: E. Detti e R. Innocenti, Favole di campagna, Roma, Gallucci editore, 2015)
A2. Che cosa si dice del gatto nelle prime righe del racconto? Indica se ognuna delle seguenti affermazioni è stata menzionata indicando si o no. c) Si dice dove si trova il gatto – sì/no
si
['item_266_0.png']
2018_02_SNV_A
binaria
si
no
null
NOVEMBRE Una casa solitaria in mezzo alla campagna, uomini e donne nei campi per la semina. Pomeriggio di novembre, giorno di sole caldo. Un gatto bianco pezzato di nero sonnecchiava al sole sul muretto di un pozzo, di fronte a un fienile. Tutto sembrava tranquillo. Sembrava, perché un topo si era affacciato da una grata della costruzione, stava su un mattone di terracotta e tratteneva tra le zampe una corda. Anzi aveva fatto in fondo alla corda un cappio, cioè un anello attraverso cui poteva passare una testa, e lo stava calando giù, verso il gatto. Ma che faceva quel pazzo di topo? Voleva catturare il gatto? Forse no, perché appeso alla cordicella c'era un minuscolo campanello. Ma sì, voleva mettere un campanello al collo del gatto, approfittando del fatto che stava dormendo. Perché mai quel campanello? Voleva preparare il gatto per una festa? Tentativo rischioso più per il topo che per il gatto, è logico. Ma il topo era abile. La corda calò con lentezza, in modo che il campanello non suonasse. Dondolava, poco però e non suonava. Bravo topo. Il cappio era ormai dinnanzi alla testa del gatto, bastava una mossa decisa e zac! Il gatto sarebbe rimasto imprigionato, preso per il collo e... Però il nostro topo, per quanto ingegnoso, non aveva fatto bene i conti, non aveva considerato un particolare, i baffi del gatto. Baffi quasi invisibili che basta toccarli per far sussultare l’animale. E infatti accadde proprio questo. La corda oscillante sfiorò uno dei baffi, il gatto si svegliò, vide e capì tutto nella frazione di un secondo. Fece un salto, per poco non scivolava nel pozzo, ma si aggrappò alla corda e come un giocoliere saltò di qua e di là dei bordi e finalmente fu a terra. Il topo deluso tirò a sé in fretta la corda, ora il campanello suonò, un suono quasi di allarme, quasi di fallimento. — Din din, din din! Il gatto ritrovò la calma, si compose e guardò in alto verso il topo. — Perché volevi mettermi quel coso al collo? — Per sicurezza! Sai muoverti così silenzioso che non ti sentiamo mai arrivare, bestiaccia. E la settimana scorsa ti sei mangiato due dei miei fratelli, brutto assassino. Volevo metterti al collo un campanello per sentirti arrivare e poterci nascondere! — Quanti siete in famiglia, voglio dire lì nel fienile? — chiese il gatto con aria distratta, come se guardasse una farfalla posata su una siepe di rose. — Siamo rimasti solo 25, compresi mamma e babbo! Disgraziato! II gatto si passò la lingua sui baffi, scosse le orecchie come per scacciare alcune parole che non voleva sentire. Aveva l’aria di chi continua a guardare una farfalla, invece si stava facendo i suoi conti. — Hum, buoni! — concluse — Avrò ottime colazioni a portata di mano per qualche settimana allora! — Cattivo! — squittì il topo. E con le lacrime agli occhi rientrò nel fienile. Il topo andò subito a raccontare alla sua famiglia del fallito tentativo e dei terribili propositi del gatto. Il giorno dopo accadde però un fatto strano. La massaia andò al mercato e tornò con scatolette e croccantini per gatti e glieli mise in una scodella. Il micio bianco pezzato di nero mangiò tutto. Ma ora con la pancia piena si sentiva pesante, e si dimenticò dei topi, non si ricordò nemmeno più che esistessero. Questo per giorni e giorni. Nel fienile i topi stupiti osservavano il nuovo comportamento del gatto. Lo videro ingrassare e farsi sempre più pigro. Cosicché dopo un mesetto conclusero: — Si sarà fatto buono! (Tratto e adattato da: E. Detti e R. Innocenti, Favole di campagna, Roma, Gallucci editore, 2015)
A2. Che cosa si dice del gatto nelle prime righe del racconto? Indica se ognuna delle seguenti affermazioni è stata menzionata indicando si o no. d) da quanto tempo il gatto è lì – sì/no
no
['item_266_0.png']
2018_02_SNV_A
binaria
si
no
null
NOVEMBRE Una casa solitaria in mezzo alla campagna, uomini e donne nei campi per la semina. Pomeriggio di novembre, giorno di sole caldo. Un gatto bianco pezzato di nero sonnecchiava al sole sul muretto di un pozzo, di fronte a un fienile. Tutto sembrava tranquillo. Sembrava, perché un topo si era affacciato da una grata della costruzione, stava su un mattone di terracotta e tratteneva tra le zampe una corda. Anzi aveva fatto in fondo alla corda un cappio, cioè un anello attraverso cui poteva passare una testa, e lo stava calando giù, verso il gatto. Ma che faceva quel pazzo di topo? Voleva catturare il gatto? Forse no, perché appeso alla cordicella c'era un minuscolo campanello. Ma sì, voleva mettere un campanello al collo del gatto, approfittando del fatto che stava dormendo. Perché mai quel campanello? Voleva preparare il gatto per una festa? Tentativo rischioso più per il topo che per il gatto, è logico. Ma il topo era abile. La corda calò con lentezza, in modo che il campanello non suonasse. Dondolava, poco però e non suonava. Bravo topo. Il cappio era ormai dinnanzi alla testa del gatto, bastava una mossa decisa e zac! Il gatto sarebbe rimasto imprigionato, preso per il collo e... Però il nostro topo, per quanto ingegnoso, non aveva fatto bene i conti, non aveva considerato un particolare, i baffi del gatto. Baffi quasi invisibili che basta toccarli per far sussultare l’animale. E infatti accadde proprio questo. La corda oscillante sfiorò uno dei baffi, il gatto si svegliò, vide e capì tutto nella frazione di un secondo. Fece un salto, per poco non scivolava nel pozzo, ma si aggrappò alla corda e come un giocoliere saltò di qua e di là dei bordi e finalmente fu a terra. Il topo deluso tirò a sé in fretta la corda, ora il campanello suonò, un suono quasi di allarme, quasi di fallimento. — Din din, din din! Il gatto ritrovò la calma, si compose e guardò in alto verso il topo. — Perché volevi mettermi quel coso al collo? — Per sicurezza! Sai muoverti così silenzioso che non ti sentiamo mai arrivare, bestiaccia. E la settimana scorsa ti sei mangiato due dei miei fratelli, brutto assassino. Volevo metterti al collo un campanello per sentirti arrivare e poterci nascondere! — Quanti siete in famiglia, voglio dire lì nel fienile? — chiese il gatto con aria distratta, come se guardasse una farfalla posata su una siepe di rose. — Siamo rimasti solo 25, compresi mamma e babbo! Disgraziato! II gatto si passò la lingua sui baffi, scosse le orecchie come per scacciare alcune parole che non voleva sentire. Aveva l’aria di chi continua a guardare una farfalla, invece si stava facendo i suoi conti. — Hum, buoni! — concluse — Avrò ottime colazioni a portata di mano per qualche settimana allora! — Cattivo! — squittì il topo. E con le lacrime agli occhi rientrò nel fienile. Il topo andò subito a raccontare alla sua famiglia del fallito tentativo e dei terribili propositi del gatto. Il giorno dopo accadde però un fatto strano. La massaia andò al mercato e tornò con scatolette e croccantini per gatti e glieli mise in una scodella. Il micio bianco pezzato di nero mangiò tutto. Ma ora con la pancia piena si sentiva pesante, e si dimenticò dei topi, non si ricordò nemmeno più che esistessero. Questo per giorni e giorni. Nel fienile i topi stupiti osservavano il nuovo comportamento del gatto. Lo videro ingrassare e farsi sempre più pigro. Cosicché dopo un mesetto conclusero: — Si sarà fatto buono! (Tratto e adattato da: E. Detti e R. Innocenti, Favole di campagna, Roma, Gallucci editore, 2015)
A2. Che cosa si dice del gatto nelle prime righe del racconto? Indica se ognuna delle seguenti affermazioni è stata menzionata indicando si o no. e) che cosa sta facendo il gatto – sì/no
si
['item_266_0.png']
2018_02_SNV_A
binaria
si
no
null
NOVEMBRE Una casa solitaria in mezzo alla campagna, uomini e donne nei campi per la semina. Pomeriggio di novembre, giorno di sole caldo. Un gatto bianco pezzato di nero sonnecchiava al sole sul muretto di un pozzo, di fronte a un fienile. Tutto sembrava tranquillo. Sembrava, perché un topo si era affacciato da una grata della costruzione, stava su un mattone di terracotta e tratteneva tra le zampe una corda. Anzi aveva fatto in fondo alla corda un cappio, cioè un anello attraverso cui poteva passare una testa, e lo stava calando giù, verso il gatto. Ma che faceva quel pazzo di topo? Voleva catturare il gatto? Forse no, perché appeso alla cordicella c'era un minuscolo campanello. Ma sì, voleva mettere un campanello al collo del gatto, approfittando del fatto che stava dormendo. Perché mai quel campanello? Voleva preparare il gatto per una festa? Tentativo rischioso più per il topo che per il gatto, è logico. Ma il topo era abile. La corda calò con lentezza, in modo che il campanello non suonasse. Dondolava, poco però e non suonava. Bravo topo. Il cappio era ormai dinnanzi alla testa del gatto, bastava una mossa decisa e zac! Il gatto sarebbe rimasto imprigionato, preso per il collo e... Però il nostro topo, per quanto ingegnoso, non aveva fatto bene i conti, non aveva considerato un particolare, i baffi del gatto. Baffi quasi invisibili che basta toccarli per far sussultare l’animale. E infatti accadde proprio questo. La corda oscillante sfiorò uno dei baffi, il gatto si svegliò, vide e capì tutto nella frazione di un secondo. Fece un salto, per poco non scivolava nel pozzo, ma si aggrappò alla corda e come un giocoliere saltò di qua e di là dei bordi e finalmente fu a terra. Il topo deluso tirò a sé in fretta la corda, ora il campanello suonò, un suono quasi di allarme, quasi di fallimento. — Din din, din din! Il gatto ritrovò la calma, si compose e guardò in alto verso il topo. — Perché volevi mettermi quel coso al collo? — Per sicurezza! Sai muoverti così silenzioso che non ti sentiamo mai arrivare, bestiaccia. E la settimana scorsa ti sei mangiato due dei miei fratelli, brutto assassino. Volevo metterti al collo un campanello per sentirti arrivare e poterci nascondere! — Quanti siete in famiglia, voglio dire lì nel fienile? — chiese il gatto con aria distratta, come se guardasse una farfalla posata su una siepe di rose. — Siamo rimasti solo 25, compresi mamma e babbo! Disgraziato! II gatto si passò la lingua sui baffi, scosse le orecchie come per scacciare alcune parole che non voleva sentire. Aveva l’aria di chi continua a guardare una farfalla, invece si stava facendo i suoi conti. — Hum, buoni! — concluse — Avrò ottime colazioni a portata di mano per qualche settimana allora! — Cattivo! — squittì il topo. E con le lacrime agli occhi rientrò nel fienile. Il topo andò subito a raccontare alla sua famiglia del fallito tentativo e dei terribili propositi del gatto. Il giorno dopo accadde però un fatto strano. La massaia andò al mercato e tornò con scatolette e croccantini per gatti e glieli mise in una scodella. Il micio bianco pezzato di nero mangiò tutto. Ma ora con la pancia piena si sentiva pesante, e si dimenticò dei topi, non si ricordò nemmeno più che esistessero. Questo per giorni e giorni. Nel fienile i topi stupiti osservavano il nuovo comportamento del gatto. Lo videro ingrassare e farsi sempre più pigro. Cosicché dopo un mesetto conclusero: — Si sarà fatto buono! (Tratto e adattato da: E. Detti e R. Innocenti, Favole di campagna, Roma, Gallucci editore, 2015)
A5. All’inizio del racconto il topo ha un piano. Che cosa va bene per il suo piano, cioè è un vantaggio, e che cosa non va bene, cioè è uno svantaggio? a) Il gatto si trova più in basso del topo – Va bene per il suo piano/ Non va bene per il suo piano
va bene
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2018_02_SNV_A
binaria
va bene
non va bene
null
NOVEMBRE Una casa solitaria in mezzo alla campagna, uomini e donne nei campi per la semina. Pomeriggio di novembre, giorno di sole caldo. Un gatto bianco pezzato di nero sonnecchiava al sole sul muretto di un pozzo, di fronte a un fienile. Tutto sembrava tranquillo. Sembrava, perché un topo si era affacciato da una grata della costruzione, stava su un mattone di terracotta e tratteneva tra le zampe una corda. Anzi aveva fatto in fondo alla corda un cappio, cioè un anello attraverso cui poteva passare una testa, e lo stava calando giù, verso il gatto. Ma che faceva quel pazzo di topo? Voleva catturare il gatto? Forse no, perché appeso alla cordicella c'era un minuscolo campanello. Ma sì, voleva mettere un campanello al collo del gatto, approfittando del fatto che stava dormendo. Perché mai quel campanello? Voleva preparare il gatto per una festa? Tentativo rischioso più per il topo che per il gatto, è logico. Ma il topo era abile. La corda calò con lentezza, in modo che il campanello non suonasse. Dondolava, poco però e non suonava. Bravo topo. Il cappio era ormai dinnanzi alla testa del gatto, bastava una mossa decisa e zac! Il gatto sarebbe rimasto imprigionato, preso per il collo e... Però il nostro topo, per quanto ingegnoso, non aveva fatto bene i conti, non aveva considerato un particolare, i baffi del gatto. Baffi quasi invisibili che basta toccarli per far sussultare l’animale. E infatti accadde proprio questo. La corda oscillante sfiorò uno dei baffi, il gatto si svegliò, vide e capì tutto nella frazione di un secondo. Fece un salto, per poco non scivolava nel pozzo, ma si aggrappò alla corda e come un giocoliere saltò di qua e di là dei bordi e finalmente fu a terra. Il topo deluso tirò a sé in fretta la corda, ora il campanello suonò, un suono quasi di allarme, quasi di fallimento. — Din din, din din! Il gatto ritrovò la calma, si compose e guardò in alto verso il topo. — Perché volevi mettermi quel coso al collo? — Per sicurezza! Sai muoverti così silenzioso che non ti sentiamo mai arrivare, bestiaccia. E la settimana scorsa ti sei mangiato due dei miei fratelli, brutto assassino. Volevo metterti al collo un campanello per sentirti arrivare e poterci nascondere! — Quanti siete in famiglia, voglio dire lì nel fienile? — chiese il gatto con aria distratta, come se guardasse una farfalla posata su una siepe di rose. — Siamo rimasti solo 25, compresi mamma e babbo! Disgraziato! II gatto si passò la lingua sui baffi, scosse le orecchie come per scacciare alcune parole che non voleva sentire. Aveva l’aria di chi continua a guardare una farfalla, invece si stava facendo i suoi conti. — Hum, buoni! — concluse — Avrò ottime colazioni a portata di mano per qualche settimana allora! — Cattivo! — squittì il topo. E con le lacrime agli occhi rientrò nel fienile. Il topo andò subito a raccontare alla sua famiglia del fallito tentativo e dei terribili propositi del gatto. Il giorno dopo accadde però un fatto strano. La massaia andò al mercato e tornò con scatolette e croccantini per gatti e glieli mise in una scodella. Il micio bianco pezzato di nero mangiò tutto. Ma ora con la pancia piena si sentiva pesante, e si dimenticò dei topi, non si ricordò nemmeno più che esistessero. Questo per giorni e giorni. Nel fienile i topi stupiti osservavano il nuovo comportamento del gatto. Lo videro ingrassare e farsi sempre più pigro. Cosicché dopo un mesetto conclusero: — Si sarà fatto buono! (Tratto e adattato da: E. Detti e R. Innocenti, Favole di campagna, Roma, Gallucci editore, 2015)
A5. All’inizio del racconto il topo ha un piano. Che cosa va bene per il suo piano, cioè è un vantaggio, e che cosa non va bene, cioè è uno svantaggio? b) Il topo sa far scendere la corda facendola dondolare poco poco – Va bene per il suo piano/ Non va bene per il suo piano
va bene
['item_269_0.png']
2018_02_SNV_A
binaria
va bene
non va bene
null
NOVEMBRE Una casa solitaria in mezzo alla campagna, uomini e donne nei campi per la semina. Pomeriggio di novembre, giorno di sole caldo. Un gatto bianco pezzato di nero sonnecchiava al sole sul muretto di un pozzo, di fronte a un fienile. Tutto sembrava tranquillo. Sembrava, perché un topo si era affacciato da una grata della costruzione, stava su un mattone di terracotta e tratteneva tra le zampe una corda. Anzi aveva fatto in fondo alla corda un cappio, cioè un anello attraverso cui poteva passare una testa, e lo stava calando giù, verso il gatto. Ma che faceva quel pazzo di topo? Voleva catturare il gatto? Forse no, perché appeso alla cordicella c'era un minuscolo campanello. Ma sì, voleva mettere un campanello al collo del gatto, approfittando del fatto che stava dormendo. Perché mai quel campanello? Voleva preparare il gatto per una festa? Tentativo rischioso più per il topo che per il gatto, è logico. Ma il topo era abile. La corda calò con lentezza, in modo che il campanello non suonasse. Dondolava, poco però e non suonava. Bravo topo. Il cappio era ormai dinnanzi alla testa del gatto, bastava una mossa decisa e zac! Il gatto sarebbe rimasto imprigionato, preso per il collo e... Però il nostro topo, per quanto ingegnoso, non aveva fatto bene i conti, non aveva considerato un particolare, i baffi del gatto. Baffi quasi invisibili che basta toccarli per far sussultare l’animale. E infatti accadde proprio questo. La corda oscillante sfiorò uno dei baffi, il gatto si svegliò, vide e capì tutto nella frazione di un secondo. Fece un salto, per poco non scivolava nel pozzo, ma si aggrappò alla corda e come un giocoliere saltò di qua e di là dei bordi e finalmente fu a terra. Il topo deluso tirò a sé in fretta la corda, ora il campanello suonò, un suono quasi di allarme, quasi di fallimento. — Din din, din din! Il gatto ritrovò la calma, si compose e guardò in alto verso il topo. — Perché volevi mettermi quel coso al collo? — Per sicurezza! Sai muoverti così silenzioso che non ti sentiamo mai arrivare, bestiaccia. E la settimana scorsa ti sei mangiato due dei miei fratelli, brutto assassino. Volevo metterti al collo un campanello per sentirti arrivare e poterci nascondere! — Quanti siete in famiglia, voglio dire lì nel fienile? — chiese il gatto con aria distratta, come se guardasse una farfalla posata su una siepe di rose. — Siamo rimasti solo 25, compresi mamma e babbo! Disgraziato! II gatto si passò la lingua sui baffi, scosse le orecchie come per scacciare alcune parole che non voleva sentire. Aveva l’aria di chi continua a guardare una farfalla, invece si stava facendo i suoi conti. — Hum, buoni! — concluse — Avrò ottime colazioni a portata di mano per qualche settimana allora! — Cattivo! — squittì il topo. E con le lacrime agli occhi rientrò nel fienile. Il topo andò subito a raccontare alla sua famiglia del fallito tentativo e dei terribili propositi del gatto. Il giorno dopo accadde però un fatto strano. La massaia andò al mercato e tornò con scatolette e croccantini per gatti e glieli mise in una scodella. Il micio bianco pezzato di nero mangiò tutto. Ma ora con la pancia piena si sentiva pesante, e si dimenticò dei topi, non si ricordò nemmeno più che esistessero. Questo per giorni e giorni. Nel fienile i topi stupiti osservavano il nuovo comportamento del gatto. Lo videro ingrassare e farsi sempre più pigro. Cosicché dopo un mesetto conclusero: — Si sarà fatto buono! (Tratto e adattato da: E. Detti e R. Innocenti, Favole di campagna, Roma, Gallucci editore, 2015)
A5. All’inizio del racconto il topo ha un piano. Che cosa va bene per il suo piano, cioè è un vantaggio, e che cosa non va bene, cioè è uno svantaggio? c) Il gatto sta dormendo – Va bene per il suo piano/ Non va bene per il suo piano
va bene
['item_269_0.png']
2018_02_SNV_A
binaria
va bene
non va bene
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NOVEMBRE Una casa solitaria in mezzo alla campagna, uomini e donne nei campi per la semina. Pomeriggio di novembre, giorno di sole caldo. Un gatto bianco pezzato di nero sonnecchiava al sole sul muretto di un pozzo, di fronte a un fienile. Tutto sembrava tranquillo. Sembrava, perché un topo si era affacciato da una grata della costruzione, stava su un mattone di terracotta e tratteneva tra le zampe una corda. Anzi aveva fatto in fondo alla corda un cappio, cioè un anello attraverso cui poteva passare una testa, e lo stava calando giù, verso il gatto. Ma che faceva quel pazzo di topo? Voleva catturare il gatto? Forse no, perché appeso alla cordicella c'era un minuscolo campanello. Ma sì, voleva mettere un campanello al collo del gatto, approfittando del fatto che stava dormendo. Perché mai quel campanello? Voleva preparare il gatto per una festa? Tentativo rischioso più per il topo che per il gatto, è logico. Ma il topo era abile. La corda calò con lentezza, in modo che il campanello non suonasse. Dondolava, poco però e non suonava. Bravo topo. Il cappio era ormai dinnanzi alla testa del gatto, bastava una mossa decisa e zac! Il gatto sarebbe rimasto imprigionato, preso per il collo e... Però il nostro topo, per quanto ingegnoso, non aveva fatto bene i conti, non aveva considerato un particolare, i baffi del gatto. Baffi quasi invisibili che basta toccarli per far sussultare l’animale. E infatti accadde proprio questo. La corda oscillante sfiorò uno dei baffi, il gatto si svegliò, vide e capì tutto nella frazione di un secondo. Fece un salto, per poco non scivolava nel pozzo, ma si aggrappò alla corda e come un giocoliere saltò di qua e di là dei bordi e finalmente fu a terra. Il topo deluso tirò a sé in fretta la corda, ora il campanello suonò, un suono quasi di allarme, quasi di fallimento. — Din din, din din! Il gatto ritrovò la calma, si compose e guardò in alto verso il topo. — Perché volevi mettermi quel coso al collo? — Per sicurezza! Sai muoverti così silenzioso che non ti sentiamo mai arrivare, bestiaccia. E la settimana scorsa ti sei mangiato due dei miei fratelli, brutto assassino. Volevo metterti al collo un campanello per sentirti arrivare e poterci nascondere! — Quanti siete in famiglia, voglio dire lì nel fienile? — chiese il gatto con aria distratta, come se guardasse una farfalla posata su una siepe di rose. — Siamo rimasti solo 25, compresi mamma e babbo! Disgraziato! II gatto si passò la lingua sui baffi, scosse le orecchie come per scacciare alcune parole che non voleva sentire. Aveva l’aria di chi continua a guardare una farfalla, invece si stava facendo i suoi conti. — Hum, buoni! — concluse — Avrò ottime colazioni a portata di mano per qualche settimana allora! — Cattivo! — squittì il topo. E con le lacrime agli occhi rientrò nel fienile. Il topo andò subito a raccontare alla sua famiglia del fallito tentativo e dei terribili propositi del gatto. Il giorno dopo accadde però un fatto strano. La massaia andò al mercato e tornò con scatolette e croccantini per gatti e glieli mise in una scodella. Il micio bianco pezzato di nero mangiò tutto. Ma ora con la pancia piena si sentiva pesante, e si dimenticò dei topi, non si ricordò nemmeno più che esistessero. Questo per giorni e giorni. Nel fienile i topi stupiti osservavano il nuovo comportamento del gatto. Lo videro ingrassare e farsi sempre più pigro. Cosicché dopo un mesetto conclusero: — Si sarà fatto buono! (Tratto e adattato da: E. Detti e R. Innocenti, Favole di campagna, Roma, Gallucci editore, 2015)
A5. All’inizio del racconto il topo ha un piano. Che cosa va bene per il suo piano, cioè è un vantaggio, e che cosa non va bene, cioè è uno svantaggio? d) I baffi del gatto sono quasi invisibili – Va bene per il suo piano/ Non va bene per il suo piano
non va bene
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2018_02_SNV_A
binaria
va bene
non va bene
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NOVEMBRE Una casa solitaria in mezzo alla campagna, uomini e donne nei campi per la semina. Pomeriggio di novembre, giorno di sole caldo. Un gatto bianco pezzato di nero sonnecchiava al sole sul muretto di un pozzo, di fronte a un fienile. Tutto sembrava tranquillo. Sembrava, perché un topo si era affacciato da una grata della costruzione, stava su un mattone di terracotta e tratteneva tra le zampe una corda. Anzi aveva fatto in fondo alla corda un cappio, cioè un anello attraverso cui poteva passare una testa, e lo stava calando giù, verso il gatto. Ma che faceva quel pazzo di topo? Voleva catturare il gatto? Forse no, perché appeso alla cordicella c'era un minuscolo campanello. Ma sì, voleva mettere un campanello al collo del gatto, approfittando del fatto che stava dormendo. Perché mai quel campanello? Voleva preparare il gatto per una festa? Tentativo rischioso più per il topo che per il gatto, è logico. Ma il topo era abile. La corda calò con lentezza, in modo che il campanello non suonasse. Dondolava, poco però e non suonava. Bravo topo. Il cappio era ormai dinnanzi alla testa del gatto, bastava una mossa decisa e zac! Il gatto sarebbe rimasto imprigionato, preso per il collo e... Però il nostro topo, per quanto ingegnoso, non aveva fatto bene i conti, non aveva considerato un particolare, i baffi del gatto. Baffi quasi invisibili che basta toccarli per far sussultare l’animale. E infatti accadde proprio questo. La corda oscillante sfiorò uno dei baffi, il gatto si svegliò, vide e capì tutto nella frazione di un secondo. Fece un salto, per poco non scivolava nel pozzo, ma si aggrappò alla corda e come un giocoliere saltò di qua e di là dei bordi e finalmente fu a terra. Il topo deluso tirò a sé in fretta la corda, ora il campanello suonò, un suono quasi di allarme, quasi di fallimento. — Din din, din din! Il gatto ritrovò la calma, si compose e guardò in alto verso il topo. — Perché volevi mettermi quel coso al collo? — Per sicurezza! Sai muoverti così silenzioso che non ti sentiamo mai arrivare, bestiaccia. E la settimana scorsa ti sei mangiato due dei miei fratelli, brutto assassino. Volevo metterti al collo un campanello per sentirti arrivare e poterci nascondere! — Quanti siete in famiglia, voglio dire lì nel fienile? — chiese il gatto con aria distratta, come se guardasse una farfalla posata su una siepe di rose. — Siamo rimasti solo 25, compresi mamma e babbo! Disgraziato! II gatto si passò la lingua sui baffi, scosse le orecchie come per scacciare alcune parole che non voleva sentire. Aveva l’aria di chi continua a guardare una farfalla, invece si stava facendo i suoi conti. — Hum, buoni! — concluse — Avrò ottime colazioni a portata di mano per qualche settimana allora! — Cattivo! — squittì il topo. E con le lacrime agli occhi rientrò nel fienile. Il topo andò subito a raccontare alla sua famiglia del fallito tentativo e dei terribili propositi del gatto. Il giorno dopo accadde però un fatto strano. La massaia andò al mercato e tornò con scatolette e croccantini per gatti e glieli mise in una scodella. Il micio bianco pezzato di nero mangiò tutto. Ma ora con la pancia piena si sentiva pesante, e si dimenticò dei topi, non si ricordò nemmeno più che esistessero. Questo per giorni e giorni. Nel fienile i topi stupiti osservavano il nuovo comportamento del gatto. Lo videro ingrassare e farsi sempre più pigro. Cosicché dopo un mesetto conclusero: — Si sarà fatto buono! (Tratto e adattato da: E. Detti e R. Innocenti, Favole di campagna, Roma, Gallucci editore, 2015)
A5. All’inizio del racconto il topo ha un piano. Che cosa va bene per il suo piano, cioè è un vantaggio, e che cosa non va bene, cioè è uno svantaggio? e) Il gatto si accorge sfiora i suoi baffi – Va bene per il suo piano/ Non va bene per il suo piano
non va bene
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binaria
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non va bene
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NOVEMBRE Una casa solitaria in mezzo alla campagna, uomini e donne nei campi per la semina. Pomeriggio di novembre, giorno di sole caldo. Un gatto bianco pezzato di nero sonnecchiava al sole sul muretto di un pozzo, di fronte a un fienile. Tutto sembrava tranquillo. Sembrava, perché un topo si era affacciato da una grata della costruzione, stava su un mattone di terracotta e tratteneva tra le zampe una corda. Anzi aveva fatto in fondo alla corda un cappio, cioè un anello attraverso cui poteva passare una testa, e lo stava calando giù, verso il gatto. Ma che faceva quel pazzo di topo? Voleva catturare il gatto? Forse no, perché appeso alla cordicella c'era un minuscolo campanello. Ma sì, voleva mettere un campanello al collo del gatto, approfittando del fatto che stava dormendo. Perché mai quel campanello? Voleva preparare il gatto per una festa? Tentativo rischioso più per il topo che per il gatto, è logico. Ma il topo era abile. La corda calò con lentezza, in modo che il campanello non suonasse. Dondolava, poco però e non suonava. Bravo topo. Il cappio era ormai dinnanzi alla testa del gatto, bastava una mossa decisa e zac! Il gatto sarebbe rimasto imprigionato, preso per il collo e... Però il nostro topo, per quanto ingegnoso, non aveva fatto bene i conti, non aveva considerato un particolare, i baffi del gatto. Baffi quasi invisibili che basta toccarli per far sussultare l’animale. E infatti accadde proprio questo. La corda oscillante sfiorò uno dei baffi, il gatto si svegliò, vide e capì tutto nella frazione di un secondo. Fece un salto, per poco non scivolava nel pozzo, ma si aggrappò alla corda e come un giocoliere saltò di qua e di là dei bordi e finalmente fu a terra. Il topo deluso tirò a sé in fretta la corda, ora il campanello suonò, un suono quasi di allarme, quasi di fallimento. — Din din, din din! Il gatto ritrovò la calma, si compose e guardò in alto verso il topo. — Perché volevi mettermi quel coso al collo? — Per sicurezza! Sai muoverti così silenzioso che non ti sentiamo mai arrivare, bestiaccia. E la settimana scorsa ti sei mangiato due dei miei fratelli, brutto assassino. Volevo metterti al collo un campanello per sentirti arrivare e poterci nascondere! — Quanti siete in famiglia, voglio dire lì nel fienile? — chiese il gatto con aria distratta, come se guardasse una farfalla posata su una siepe di rose. — Siamo rimasti solo 25, compresi mamma e babbo! Disgraziato! II gatto si passò la lingua sui baffi, scosse le orecchie come per scacciare alcune parole che non voleva sentire. Aveva l’aria di chi continua a guardare una farfalla, invece si stava facendo i suoi conti. — Hum, buoni! — concluse — Avrò ottime colazioni a portata di mano per qualche settimana allora! — Cattivo! — squittì il topo. E con le lacrime agli occhi rientrò nel fienile. Il topo andò subito a raccontare alla sua famiglia del fallito tentativo e dei terribili propositi del gatto. Il giorno dopo accadde però un fatto strano. La massaia andò al mercato e tornò con scatolette e croccantini per gatti e glieli mise in una scodella. Il micio bianco pezzato di nero mangiò tutto. Ma ora con la pancia piena si sentiva pesante, e si dimenticò dei topi, non si ricordò nemmeno più che esistessero. Questo per giorni e giorni. Nel fienile i topi stupiti osservavano il nuovo comportamento del gatto. Lo videro ingrassare e farsi sempre più pigro. Cosicché dopo un mesetto conclusero: — Si sarà fatto buono! (Tratto e adattato da: E. Detti e R. Innocenti, Favole di campagna, Roma, Gallucci editore, 2015)
A14. In questo racconto quali sono i personaggi? Per ognuno dei personaggi seguenti indica se è o no un personaggio. a) Un gatto – è un personaggio/ non è un personaggio
personaggio
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2018_02_SNV_A
binaria
personaggio
non personaggio
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NOVEMBRE Una casa solitaria in mezzo alla campagna, uomini e donne nei campi per la semina. Pomeriggio di novembre, giorno di sole caldo. Un gatto bianco pezzato di nero sonnecchiava al sole sul muretto di un pozzo, di fronte a un fienile. Tutto sembrava tranquillo. Sembrava, perché un topo si era affacciato da una grata della costruzione, stava su un mattone di terracotta e tratteneva tra le zampe una corda. Anzi aveva fatto in fondo alla corda un cappio, cioè un anello attraverso cui poteva passare una testa, e lo stava calando giù, verso il gatto. Ma che faceva quel pazzo di topo? Voleva catturare il gatto? Forse no, perché appeso alla cordicella c'era un minuscolo campanello. Ma sì, voleva mettere un campanello al collo del gatto, approfittando del fatto che stava dormendo. Perché mai quel campanello? Voleva preparare il gatto per una festa? Tentativo rischioso più per il topo che per il gatto, è logico. Ma il topo era abile. La corda calò con lentezza, in modo che il campanello non suonasse. Dondolava, poco però e non suonava. Bravo topo. Il cappio era ormai dinnanzi alla testa del gatto, bastava una mossa decisa e zac! Il gatto sarebbe rimasto imprigionato, preso per il collo e... Però il nostro topo, per quanto ingegnoso, non aveva fatto bene i conti, non aveva considerato un particolare, i baffi del gatto. Baffi quasi invisibili che basta toccarli per far sussultare l’animale. E infatti accadde proprio questo. La corda oscillante sfiorò uno dei baffi, il gatto si svegliò, vide e capì tutto nella frazione di un secondo. Fece un salto, per poco non scivolava nel pozzo, ma si aggrappò alla corda e come un giocoliere saltò di qua e di là dei bordi e finalmente fu a terra. Il topo deluso tirò a sé in fretta la corda, ora il campanello suonò, un suono quasi di allarme, quasi di fallimento. — Din din, din din! Il gatto ritrovò la calma, si compose e guardò in alto verso il topo. — Perché volevi mettermi quel coso al collo? — Per sicurezza! Sai muoverti così silenzioso che non ti sentiamo mai arrivare, bestiaccia. E la settimana scorsa ti sei mangiato due dei miei fratelli, brutto assassino. Volevo metterti al collo un campanello per sentirti arrivare e poterci nascondere! — Quanti siete in famiglia, voglio dire lì nel fienile? — chiese il gatto con aria distratta, come se guardasse una farfalla posata su una siepe di rose. — Siamo rimasti solo 25, compresi mamma e babbo! Disgraziato! II gatto si passò la lingua sui baffi, scosse le orecchie come per scacciare alcune parole che non voleva sentire. Aveva l’aria di chi continua a guardare una farfalla, invece si stava facendo i suoi conti. — Hum, buoni! — concluse — Avrò ottime colazioni a portata di mano per qualche settimana allora! — Cattivo! — squittì il topo. E con le lacrime agli occhi rientrò nel fienile. Il topo andò subito a raccontare alla sua famiglia del fallito tentativo e dei terribili propositi del gatto. Il giorno dopo accadde però un fatto strano. La massaia andò al mercato e tornò con scatolette e croccantini per gatti e glieli mise in una scodella. Il micio bianco pezzato di nero mangiò tutto. Ma ora con la pancia piena si sentiva pesante, e si dimenticò dei topi, non si ricordò nemmeno più che esistessero. Questo per giorni e giorni. Nel fienile i topi stupiti osservavano il nuovo comportamento del gatto. Lo videro ingrassare e farsi sempre più pigro. Cosicché dopo un mesetto conclusero: — Si sarà fatto buono! (Tratto e adattato da: E. Detti e R. Innocenti, Favole di campagna, Roma, Gallucci editore, 2015)
A14. In questo racconto quali sono i personaggi? Per ognuno dei personaggi seguenti indica se è o no un personaggio. b) Una farfalla – è un personaggio/ non è un personaggio
personaggio
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2018_02_SNV_A
binaria
personaggio
personaggio
null
NOVEMBRE Una casa solitaria in mezzo alla campagna, uomini e donne nei campi per la semina. Pomeriggio di novembre, giorno di sole caldo. Un gatto bianco pezzato di nero sonnecchiava al sole sul muretto di un pozzo, di fronte a un fienile. Tutto sembrava tranquillo. Sembrava, perché un topo si era affacciato da una grata della costruzione, stava su un mattone di terracotta e tratteneva tra le zampe una corda. Anzi aveva fatto in fondo alla corda un cappio, cioè un anello attraverso cui poteva passare una testa, e lo stava calando giù, verso il gatto. Ma che faceva quel pazzo di topo? Voleva catturare il gatto? Forse no, perché appeso alla cordicella c'era un minuscolo campanello. Ma sì, voleva mettere un campanello al collo del gatto, approfittando del fatto che stava dormendo. Perché mai quel campanello? Voleva preparare il gatto per una festa? Tentativo rischioso più per il topo che per il gatto, è logico. Ma il topo era abile. La corda calò con lentezza, in modo che il campanello non suonasse. Dondolava, poco però e non suonava. Bravo topo. Il cappio era ormai dinnanzi alla testa del gatto, bastava una mossa decisa e zac! Il gatto sarebbe rimasto imprigionato, preso per il collo e... Però il nostro topo, per quanto ingegnoso, non aveva fatto bene i conti, non aveva considerato un particolare, i baffi del gatto. Baffi quasi invisibili che basta toccarli per far sussultare l’animale. E infatti accadde proprio questo. La corda oscillante sfiorò uno dei baffi, il gatto si svegliò, vide e capì tutto nella frazione di un secondo. Fece un salto, per poco non scivolava nel pozzo, ma si aggrappò alla corda e come un giocoliere saltò di qua e di là dei bordi e finalmente fu a terra. Il topo deluso tirò a sé in fretta la corda, ora il campanello suonò, un suono quasi di allarme, quasi di fallimento. — Din din, din din! Il gatto ritrovò la calma, si compose e guardò in alto verso il topo. — Perché volevi mettermi quel coso al collo? — Per sicurezza! Sai muoverti così silenzioso che non ti sentiamo mai arrivare, bestiaccia. E la settimana scorsa ti sei mangiato due dei miei fratelli, brutto assassino. Volevo metterti al collo un campanello per sentirti arrivare e poterci nascondere! — Quanti siete in famiglia, voglio dire lì nel fienile? — chiese il gatto con aria distratta, come se guardasse una farfalla posata su una siepe di rose. — Siamo rimasti solo 25, compresi mamma e babbo! Disgraziato! II gatto si passò la lingua sui baffi, scosse le orecchie come per scacciare alcune parole che non voleva sentire. Aveva l’aria di chi continua a guardare una farfalla, invece si stava facendo i suoi conti. — Hum, buoni! — concluse — Avrò ottime colazioni a portata di mano per qualche settimana allora! — Cattivo! — squittì il topo. E con le lacrime agli occhi rientrò nel fienile. Il topo andò subito a raccontare alla sua famiglia del fallito tentativo e dei terribili propositi del gatto. Il giorno dopo accadde però un fatto strano. La massaia andò al mercato e tornò con scatolette e croccantini per gatti e glieli mise in una scodella. Il micio bianco pezzato di nero mangiò tutto. Ma ora con la pancia piena si sentiva pesante, e si dimenticò dei topi, non si ricordò nemmeno più che esistessero. Questo per giorni e giorni. Nel fienile i topi stupiti osservavano il nuovo comportamento del gatto. Lo videro ingrassare e farsi sempre più pigro. Cosicché dopo un mesetto conclusero: — Si sarà fatto buono! (Tratto e adattato da: E. Detti e R. Innocenti, Favole di campagna, Roma, Gallucci editore, 2015)
A14. In questo racconto quali sono i personaggi? Per ognuno dei personaggi seguenti indica se è o no un personaggio. c) Un topo – è un personaggio/ non è un personaggio
personaggio
['item_278_0.png']
2018_02_SNV_A
binaria
personaggio
non personaggio
null
NOVEMBRE Una casa solitaria in mezzo alla campagna, uomini e donne nei campi per la semina. Pomeriggio di novembre, giorno di sole caldo. Un gatto bianco pezzato di nero sonnecchiava al sole sul muretto di un pozzo, di fronte a un fienile. Tutto sembrava tranquillo. Sembrava, perché un topo si era affacciato da una grata della costruzione, stava su un mattone di terracotta e tratteneva tra le zampe una corda. Anzi aveva fatto in fondo alla corda un cappio, cioè un anello attraverso cui poteva passare una testa, e lo stava calando giù, verso il gatto. Ma che faceva quel pazzo di topo? Voleva catturare il gatto? Forse no, perché appeso alla cordicella c'era un minuscolo campanello. Ma sì, voleva mettere un campanello al collo del gatto, approfittando del fatto che stava dormendo. Perché mai quel campanello? Voleva preparare il gatto per una festa? Tentativo rischioso più per il topo che per il gatto, è logico. Ma il topo era abile. La corda calò con lentezza, in modo che il campanello non suonasse. Dondolava, poco però e non suonava. Bravo topo. Il cappio era ormai dinnanzi alla testa del gatto, bastava una mossa decisa e zac! Il gatto sarebbe rimasto imprigionato, preso per il collo e... Però il nostro topo, per quanto ingegnoso, non aveva fatto bene i conti, non aveva considerato un particolare, i baffi del gatto. Baffi quasi invisibili che basta toccarli per far sussultare l’animale. E infatti accadde proprio questo. La corda oscillante sfiorò uno dei baffi, il gatto si svegliò, vide e capì tutto nella frazione di un secondo. Fece un salto, per poco non scivolava nel pozzo, ma si aggrappò alla corda e come un giocoliere saltò di qua e di là dei bordi e finalmente fu a terra. Il topo deluso tirò a sé in fretta la corda, ora il campanello suonò, un suono quasi di allarme, quasi di fallimento. — Din din, din din! Il gatto ritrovò la calma, si compose e guardò in alto verso il topo. — Perché volevi mettermi quel coso al collo? — Per sicurezza! Sai muoverti così silenzioso che non ti sentiamo mai arrivare, bestiaccia. E la settimana scorsa ti sei mangiato due dei miei fratelli, brutto assassino. Volevo metterti al collo un campanello per sentirti arrivare e poterci nascondere! — Quanti siete in famiglia, voglio dire lì nel fienile? — chiese il gatto con aria distratta, come se guardasse una farfalla posata su una siepe di rose. — Siamo rimasti solo 25, compresi mamma e babbo! Disgraziato! II gatto si passò la lingua sui baffi, scosse le orecchie come per scacciare alcune parole che non voleva sentire. Aveva l’aria di chi continua a guardare una farfalla, invece si stava facendo i suoi conti. — Hum, buoni! — concluse — Avrò ottime colazioni a portata di mano per qualche settimana allora! — Cattivo! — squittì il topo. E con le lacrime agli occhi rientrò nel fienile. Il topo andò subito a raccontare alla sua famiglia del fallito tentativo e dei terribili propositi del gatto. Il giorno dopo accadde però un fatto strano. La massaia andò al mercato e tornò con scatolette e croccantini per gatti e glieli mise in una scodella. Il micio bianco pezzato di nero mangiò tutto. Ma ora con la pancia piena si sentiva pesante, e si dimenticò dei topi, non si ricordò nemmeno più che esistessero. Questo per giorni e giorni. Nel fienile i topi stupiti osservavano il nuovo comportamento del gatto. Lo videro ingrassare e farsi sempre più pigro. Cosicché dopo un mesetto conclusero: — Si sarà fatto buono! (Tratto e adattato da: E. Detti e R. Innocenti, Favole di campagna, Roma, Gallucci editore, 2015)
A14. In questo racconto quali sono i personaggi? Per ognuno dei personaggi seguenti indica se è o no un personaggio. d) Un giocoliere – è un personaggio/ non è un personaggio
non personaggio
['item_278_0.png']
2018_02_SNV_A
binaria
personaggio
non personaggio
null
NOVEMBRE Una casa solitaria in mezzo alla campagna, uomini e donne nei campi per la semina. Pomeriggio di novembre, giorno di sole caldo. Un gatto bianco pezzato di nero sonnecchiava al sole sul muretto di un pozzo, di fronte a un fienile. Tutto sembrava tranquillo. Sembrava, perché un topo si era affacciato da una grata della costruzione, stava su un mattone di terracotta e tratteneva tra le zampe una corda. Anzi aveva fatto in fondo alla corda un cappio, cioè un anello attraverso cui poteva passare una testa, e lo stava calando giù, verso il gatto. Ma che faceva quel pazzo di topo? Voleva catturare il gatto? Forse no, perché appeso alla cordicella c'era un minuscolo campanello. Ma sì, voleva mettere un campanello al collo del gatto, approfittando del fatto che stava dormendo. Perché mai quel campanello? Voleva preparare il gatto per una festa? Tentativo rischioso più per il topo che per il gatto, è logico. Ma il topo era abile. La corda calò con lentezza, in modo che il campanello non suonasse. Dondolava, poco però e non suonava. Bravo topo. Il cappio era ormai dinnanzi alla testa del gatto, bastava una mossa decisa e zac! Il gatto sarebbe rimasto imprigionato, preso per il collo e... Però il nostro topo, per quanto ingegnoso, non aveva fatto bene i conti, non aveva considerato un particolare, i baffi del gatto. Baffi quasi invisibili che basta toccarli per far sussultare l’animale. E infatti accadde proprio questo. La corda oscillante sfiorò uno dei baffi, il gatto si svegliò, vide e capì tutto nella frazione di un secondo. Fece un salto, per poco non scivolava nel pozzo, ma si aggrappò alla corda e come un giocoliere saltò di qua e di là dei bordi e finalmente fu a terra. Il topo deluso tirò a sé in fretta la corda, ora il campanello suonò, un suono quasi di allarme, quasi di fallimento. — Din din, din din! Il gatto ritrovò la calma, si compose e guardò in alto verso il topo. — Perché volevi mettermi quel coso al collo? — Per sicurezza! Sai muoverti così silenzioso che non ti sentiamo mai arrivare, bestiaccia. E la settimana scorsa ti sei mangiato due dei miei fratelli, brutto assassino. Volevo metterti al collo un campanello per sentirti arrivare e poterci nascondere! — Quanti siete in famiglia, voglio dire lì nel fienile? — chiese il gatto con aria distratta, come se guardasse una farfalla posata su una siepe di rose. — Siamo rimasti solo 25, compresi mamma e babbo! Disgraziato! II gatto si passò la lingua sui baffi, scosse le orecchie come per scacciare alcune parole che non voleva sentire. Aveva l’aria di chi continua a guardare una farfalla, invece si stava facendo i suoi conti. — Hum, buoni! — concluse — Avrò ottime colazioni a portata di mano per qualche settimana allora! — Cattivo! — squittì il topo. E con le lacrime agli occhi rientrò nel fienile. Il topo andò subito a raccontare alla sua famiglia del fallito tentativo e dei terribili propositi del gatto. Il giorno dopo accadde però un fatto strano. La massaia andò al mercato e tornò con scatolette e croccantini per gatti e glieli mise in una scodella. Il micio bianco pezzato di nero mangiò tutto. Ma ora con la pancia piena si sentiva pesante, e si dimenticò dei topi, non si ricordò nemmeno più che esistessero. Questo per giorni e giorni. Nel fienile i topi stupiti osservavano il nuovo comportamento del gatto. Lo videro ingrassare e farsi sempre più pigro. Cosicché dopo un mesetto conclusero: — Si sarà fatto buono! (Tratto e adattato da: E. Detti e R. Innocenti, Favole di campagna, Roma, Gallucci editore, 2015)
A14. In questo racconto quali sono i personaggi? Per ognuno dei personaggi seguenti indica se è o no un personaggio. e) Una massaia – è un personaggio/ non è un personaggio
personaggio
['item_278_0.png']
2018_02_SNV_A
binaria
personaggio
non personaggio
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Gli occhiali musicali -1- Alessandro non amava il solfeggio, e addirittura confondeva le note: do re mi sai fo li so da. Che pasticci! Il suo violino strideva: criiiiiiiiiii-ing! - È un tormento! - diceva Alessandro. - Faresti meglio a comprarti un paio di occhiali! - sogghignava il maestro di musica. E così Alessandro si comprò gli occhiali. Il venditore di occhiali musicali era un vecchio cinese curvo e grinzoso; non faceva che ridere con aria beffarda, stropicciandosi le mani: - lh-ih-ih! So bene che cosa ti occorre! Eccoti degli occhiali per leggere il tuo metodo di solfeggio! -2- Erano occhiali prodigiosi. Più nessun bisogno di studiare. Alessandro inforcava gli occhiali e suonava tutto lo spartito senza sforzo. - Che progressi! - esclamò il maestro di musica. - Mai visto niente di simile! Alessandro tornò a casa tutto compiaciuto e ripose il violino in un angolo. Non valeva più la pena di affaticarsi. Ma il mercoledì seguente, che disastro! Aperto il «Metodo di violino», Alessandro inforcò gli occhiali, sollevò l'archetto, e... non riusciva a leggere l'esercizio! - Che aspetti per cominciare? - chiese il maestro, impaziente. - Eeeh ....lo ... Glub ...... Non so ..... - farfugliò penosamente Alessandro. Ripose il violino nell'astuccio, richiuse il «Metodo»; e allora capì che cos'era successo! Aveva comprato degli occhiali per il metodo numero uno, e invece era il numero due quello che avrebbe dovuto decifrare: si era sbagliato! E allora? - È vero - disse il vecchio venditore di occhiali sfregandosi le mani. - Per ogni singolo metodo esistono occhiali particolari. Bisogna cambiare occhiali ogni volta che cambi metodo! - È un tormento! - gemeva Alessandro. Comprò un secondo paio di occhiali. -3- - Sono contento di te, - dichiarò il maestro di musica - potresti studiarmi questo pezzo di Bach per la settimana prossima? Era una partitura difficile. Corse dal vecchio cinese, che lo rassicurò. Ma sì, vendeva anche gli occhiali per suonare quel pezzo di Bach. Alessandro comprò gli occhiali. E nelle settimane che seguirono, comprò altri occhiali per suonare pezzi di Mozart, Beethoven e perfino Esposito-Brambilla. Dicevano che era dotato, che leggeva a meraviglia i pezzi più arzigogolati. Un bel giorno il maestro di musica annunciò: - Daremo un concerto. - Eeeh.... lo..... Glub... No grazie... - farfugliò Alessandro. Si vergognava, aveva paura; però possedeva una cinquantina di paia di occhiali musicali. Il concerto fu un successo. Alessandro venne invitato a suonare alla radio, alla televisione, la sua fotografia era sul giornale. Ma ora possedeva quasi trecento paia di occhiali. (Gli succedeva d'altronde di comprare dei pezzi di musica che il maestro non gli aveva chiesto: li suonava a casa, per suo piacere personale.) - lh-ih-ih ! Cominci ad amare la musica! - ridacchiava il vecchio cinese, sfregandosi le mani. Alessandro non rispondeva. Di nascosto, aveva cercato di leggere dei pezzi di musica senza occhiali. Un disastro! Le note si confondevano come prima. Do rol ma fi sa lo si da! Saltabeccavano sugli spartiti come migliaia di pulci! Si nascondevano dietro le stanghette delle battute come tante pecore quando saltano le staccionate! Erano bianche, nere, di tanti colori! E c'erano pause dappertutto, ma le pause più angosciose erano quelle di Alessandro! - È un tormentooooo! - piagnucolava. Aveva una gran voglia di essere smascherato! -4- Un giorno che era a scuola, successe il disastro. La sua mamma, nel fare le grandi pulizie, scoprì la collezione di occhiali. Li prese per degli stupidi gadget e buttò ogni cosa nella spazzatura! Al suo ritorno, Alessandro non trovò più niente. Si mise a piangere, a gridare, a pestare i piedi. - È un tormentoeeee ! - urlava. Alessandro corse dal venditore di occhiali. Ma il vecchio cinese gli spiegò, sfregandosi le mani, che non possedeva duplicati dei famosi occhiali musicali. Poverino! Come confessare al maestro di musica, ai genitori, ai compagni, agli ammiratori e alle ammiratrici di essere un imbroglione! Tornò a casa e si mise a letto per farsi credere malato. Pensa e ripensa Di colpo balzò giù dal letto e tornò dal venditore di occhiali: -Voglio imparare i vecchi pezzi! - gli disse. - Può lasciarmi esercitare qui da lei, in segreto? Il cinese si sfregò le mani con un sorriso largo così, perché era proprio quello che aveva sperato. -5- Per settimane, per mesi, a mezzogiorno e alla sera, Alessandro prese la strada del piccolo negozio invece di andare a giocare con gli amici. E un po' alla volta imparò il solfeggio. Do re mi fa sol la si do. Facile. Imparò la chiave di sol, la chiave di fa, la chiave di do e tutto il resto del mazzo di chiavi. Un giorno, suonando i vecchi pezzi, riuscì a far cantare il violino. Allora, la pigrizia (o l'abitudine) lo riprese: - Per il prossimo pezzo mi comprerò un paio di occhiali. Il venditore glieli procurò sfregandosi le mani con aria sorniona. Alessandro inforcò gli occhiali e suonò il pezzo senza errori. Era contento. Ma il vecchio scoppiò a ridere riprendendosi i famosi occhiali, ih-ih-ih. Passò le dita nei fori: erano occhiali senza lenti! - Ma allora...? Che significa tutto questo? - Significa - ridacchiò il venditore - che ora conosci la musica e non hai più bisogno di occhiali! Alessandro aggrottò le sopracciglia, «È ancora un tormento» pensò. Ma sollevò l'archetto e suonò di nuovo il pezzo senza occhiali. Quando ebbe terminato, senza una sola nota falsa, restò un momento in silenzio con l'archetto in aria. Era commosso. (Tratto e adattato da: V. Rivais, Calma e sangue freddo!, Trieste, EMME EDIZIONI, 1993)
A5. “- Può lasciarmi esercitare qui da lei, in segreto?” (riga 67). Da questa frase si capisce che Alessandro ha tre esigenze: A. vuole esercitarsi a suonare B. vuole esercitarsi dal vecchio cinese C. vuole esercitarsi in segreto. Indica quali ragioni spiegano il perché di ciascuna esigenza. a) Non vuole far sapere a nessuno dei suoi trucchi. È UNA RAGIONE PER CUI… - vuole esercitarsi / è dal cinese / è in segreto
è in segreto che vuole esercitarsi
['item_286_0.png']
2018_05_SNV_A
binaria
vuole esercitarsi
è dal cinese che vuole esercitarsi
è in segreto che vuole esercitarsi
Gli occhiali musicali -1- Alessandro non amava il solfeggio, e addirittura confondeva le note: do re mi sai fo li so da. Che pasticci! Il suo violino strideva: criiiiiiiiiii-ing! - È un tormento! - diceva Alessandro. - Faresti meglio a comprarti un paio di occhiali! - sogghignava il maestro di musica. E così Alessandro si comprò gli occhiali. Il venditore di occhiali musicali era un vecchio cinese curvo e grinzoso; non faceva che ridere con aria beffarda, stropicciandosi le mani: - lh-ih-ih! So bene che cosa ti occorre! Eccoti degli occhiali per leggere il tuo metodo di solfeggio! -2- Erano occhiali prodigiosi. Più nessun bisogno di studiare. Alessandro inforcava gli occhiali e suonava tutto lo spartito senza sforzo. - Che progressi! - esclamò il maestro di musica. - Mai visto niente di simile! Alessandro tornò a casa tutto compiaciuto e ripose il violino in un angolo. Non valeva più la pena di affaticarsi. Ma il mercoledì seguente, che disastro! Aperto il «Metodo di violino», Alessandro inforcò gli occhiali, sollevò l'archetto, e... non riusciva a leggere l'esercizio! - Che aspetti per cominciare? - chiese il maestro, impaziente. - Eeeh ....lo ... Glub ...... Non so ..... - farfugliò penosamente Alessandro. Ripose il violino nell'astuccio, richiuse il «Metodo»; e allora capì che cos'era successo! Aveva comprato degli occhiali per il metodo numero uno, e invece era il numero due quello che avrebbe dovuto decifrare: si era sbagliato! E allora? - È vero - disse il vecchio venditore di occhiali sfregandosi le mani. - Per ogni singolo metodo esistono occhiali particolari. Bisogna cambiare occhiali ogni volta che cambi metodo! - È un tormento! - gemeva Alessandro. Comprò un secondo paio di occhiali. -3- - Sono contento di te, - dichiarò il maestro di musica - potresti studiarmi questo pezzo di Bach per la settimana prossima? Era una partitura difficile. Corse dal vecchio cinese, che lo rassicurò. Ma sì, vendeva anche gli occhiali per suonare quel pezzo di Bach. Alessandro comprò gli occhiali. E nelle settimane che seguirono, comprò altri occhiali per suonare pezzi di Mozart, Beethoven e perfino Esposito-Brambilla. Dicevano che era dotato, che leggeva a meraviglia i pezzi più arzigogolati. Un bel giorno il maestro di musica annunciò: - Daremo un concerto. - Eeeh.... lo..... Glub... No grazie... - farfugliò Alessandro. Si vergognava, aveva paura; però possedeva una cinquantina di paia di occhiali musicali. Il concerto fu un successo. Alessandro venne invitato a suonare alla radio, alla televisione, la sua fotografia era sul giornale. Ma ora possedeva quasi trecento paia di occhiali. (Gli succedeva d'altronde di comprare dei pezzi di musica che il maestro non gli aveva chiesto: li suonava a casa, per suo piacere personale.) - lh-ih-ih ! Cominci ad amare la musica! - ridacchiava il vecchio cinese, sfregandosi le mani. Alessandro non rispondeva. Di nascosto, aveva cercato di leggere dei pezzi di musica senza occhiali. Un disastro! Le note si confondevano come prima. Do rol ma fi sa lo si da! Saltabeccavano sugli spartiti come migliaia di pulci! Si nascondevano dietro le stanghette delle battute come tante pecore quando saltano le staccionate! Erano bianche, nere, di tanti colori! E c'erano pause dappertutto, ma le pause più angosciose erano quelle di Alessandro! - È un tormentooooo! - piagnucolava. Aveva una gran voglia di essere smascherato! -4- Un giorno che era a scuola, successe il disastro. La sua mamma, nel fare le grandi pulizie, scoprì la collezione di occhiali. Li prese per degli stupidi gadget e buttò ogni cosa nella spazzatura! Al suo ritorno, Alessandro non trovò più niente. Si mise a piangere, a gridare, a pestare i piedi. - È un tormentoeeee ! - urlava. Alessandro corse dal venditore di occhiali. Ma il vecchio cinese gli spiegò, sfregandosi le mani, che non possedeva duplicati dei famosi occhiali musicali. Poverino! Come confessare al maestro di musica, ai genitori, ai compagni, agli ammiratori e alle ammiratrici di essere un imbroglione! Tornò a casa e si mise a letto per farsi credere malato. Pensa e ripensa Di colpo balzò giù dal letto e tornò dal venditore di occhiali: -Voglio imparare i vecchi pezzi! - gli disse. - Può lasciarmi esercitare qui da lei, in segreto? Il cinese si sfregò le mani con un sorriso largo così, perché era proprio quello che aveva sperato. -5- Per settimane, per mesi, a mezzogiorno e alla sera, Alessandro prese la strada del piccolo negozio invece di andare a giocare con gli amici. E un po' alla volta imparò il solfeggio. Do re mi fa sol la si do. Facile. Imparò la chiave di sol, la chiave di fa, la chiave di do e tutto il resto del mazzo di chiavi. Un giorno, suonando i vecchi pezzi, riuscì a far cantare il violino. Allora, la pigrizia (o l'abitudine) lo riprese: - Per il prossimo pezzo mi comprerò un paio di occhiali. Il venditore glieli procurò sfregandosi le mani con aria sorniona. Alessandro inforcò gli occhiali e suonò il pezzo senza errori. Era contento. Ma il vecchio scoppiò a ridere riprendendosi i famosi occhiali, ih-ih-ih. Passò le dita nei fori: erano occhiali senza lenti! - Ma allora...? Che significa tutto questo? - Significa - ridacchiò il venditore - che ora conosci la musica e non hai più bisogno di occhiali! Alessandro aggrottò le sopracciglia, «È ancora un tormento» pensò. Ma sollevò l'archetto e suonò di nuovo il pezzo senza occhiali. Quando ebbe terminato, senza una sola nota falsa, restò un momento in silenzio con l'archetto in aria. Era commosso. (Tratto e adattato da: V. Rivais, Calma e sangue freddo!, Trieste, EMME EDIZIONI, 1993)
A5. “- Può lasciarmi esercitare qui da lei, in segreto?” (riga 67). Da questa frase si capisce che Alessandro ha tre esigenze: A. vuole esercitarsi a suonare B. vuole esercitarsi dal vecchio cinese C. vuole esercitarsi in segreto. Indica quali ragioni spiegano il perché di ciascuna esigenza. b) Il vecchio cinese lo ha aiutato fin dall’inizio. È UNA RAGIONE PER CUI… - vuole esercitarsi / è dal cinese / è in segreto
è dal cinese che vuole esercitarsi
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binaria
vuole esercitarsi
è dal cinese che vuole esercitarsi
è in segreto che vuole esercitarsi
Gli occhiali musicali -1- Alessandro non amava il solfeggio, e addirittura confondeva le note: do re mi sai fo li so da. Che pasticci! Il suo violino strideva: criiiiiiiiiii-ing! - È un tormento! - diceva Alessandro. - Faresti meglio a comprarti un paio di occhiali! - sogghignava il maestro di musica. E così Alessandro si comprò gli occhiali. Il venditore di occhiali musicali era un vecchio cinese curvo e grinzoso; non faceva che ridere con aria beffarda, stropicciandosi le mani: - lh-ih-ih! So bene che cosa ti occorre! Eccoti degli occhiali per leggere il tuo metodo di solfeggio! -2- Erano occhiali prodigiosi. Più nessun bisogno di studiare. Alessandro inforcava gli occhiali e suonava tutto lo spartito senza sforzo. - Che progressi! - esclamò il maestro di musica. - Mai visto niente di simile! Alessandro tornò a casa tutto compiaciuto e ripose il violino in un angolo. Non valeva più la pena di affaticarsi. Ma il mercoledì seguente, che disastro! Aperto il «Metodo di violino», Alessandro inforcò gli occhiali, sollevò l'archetto, e... non riusciva a leggere l'esercizio! - Che aspetti per cominciare? - chiese il maestro, impaziente. - Eeeh ....lo ... Glub ...... Non so ..... - farfugliò penosamente Alessandro. Ripose il violino nell'astuccio, richiuse il «Metodo»; e allora capì che cos'era successo! Aveva comprato degli occhiali per il metodo numero uno, e invece era il numero due quello che avrebbe dovuto decifrare: si era sbagliato! E allora? - È vero - disse il vecchio venditore di occhiali sfregandosi le mani. - Per ogni singolo metodo esistono occhiali particolari. Bisogna cambiare occhiali ogni volta che cambi metodo! - È un tormento! - gemeva Alessandro. Comprò un secondo paio di occhiali. -3- - Sono contento di te, - dichiarò il maestro di musica - potresti studiarmi questo pezzo di Bach per la settimana prossima? Era una partitura difficile. Corse dal vecchio cinese, che lo rassicurò. Ma sì, vendeva anche gli occhiali per suonare quel pezzo di Bach. Alessandro comprò gli occhiali. E nelle settimane che seguirono, comprò altri occhiali per suonare pezzi di Mozart, Beethoven e perfino Esposito-Brambilla. Dicevano che era dotato, che leggeva a meraviglia i pezzi più arzigogolati. Un bel giorno il maestro di musica annunciò: - Daremo un concerto. - Eeeh.... lo..... Glub... No grazie... - farfugliò Alessandro. Si vergognava, aveva paura; però possedeva una cinquantina di paia di occhiali musicali. Il concerto fu un successo. Alessandro venne invitato a suonare alla radio, alla televisione, la sua fotografia era sul giornale. Ma ora possedeva quasi trecento paia di occhiali. (Gli succedeva d'altronde di comprare dei pezzi di musica che il maestro non gli aveva chiesto: li suonava a casa, per suo piacere personale.) - lh-ih-ih ! Cominci ad amare la musica! - ridacchiava il vecchio cinese, sfregandosi le mani. Alessandro non rispondeva. Di nascosto, aveva cercato di leggere dei pezzi di musica senza occhiali. Un disastro! Le note si confondevano come prima. Do rol ma fi sa lo si da! Saltabeccavano sugli spartiti come migliaia di pulci! Si nascondevano dietro le stanghette delle battute come tante pecore quando saltano le staccionate! Erano bianche, nere, di tanti colori! E c'erano pause dappertutto, ma le pause più angosciose erano quelle di Alessandro! - È un tormentooooo! - piagnucolava. Aveva una gran voglia di essere smascherato! -4- Un giorno che era a scuola, successe il disastro. La sua mamma, nel fare le grandi pulizie, scoprì la collezione di occhiali. Li prese per degli stupidi gadget e buttò ogni cosa nella spazzatura! Al suo ritorno, Alessandro non trovò più niente. Si mise a piangere, a gridare, a pestare i piedi. - È un tormentoeeee ! - urlava. Alessandro corse dal venditore di occhiali. Ma il vecchio cinese gli spiegò, sfregandosi le mani, che non possedeva duplicati dei famosi occhiali musicali. Poverino! Come confessare al maestro di musica, ai genitori, ai compagni, agli ammiratori e alle ammiratrici di essere un imbroglione! Tornò a casa e si mise a letto per farsi credere malato. Pensa e ripensa Di colpo balzò giù dal letto e tornò dal venditore di occhiali: -Voglio imparare i vecchi pezzi! - gli disse. - Può lasciarmi esercitare qui da lei, in segreto? Il cinese si sfregò le mani con un sorriso largo così, perché era proprio quello che aveva sperato. -5- Per settimane, per mesi, a mezzogiorno e alla sera, Alessandro prese la strada del piccolo negozio invece di andare a giocare con gli amici. E un po' alla volta imparò il solfeggio. Do re mi fa sol la si do. Facile. Imparò la chiave di sol, la chiave di fa, la chiave di do e tutto il resto del mazzo di chiavi. Un giorno, suonando i vecchi pezzi, riuscì a far cantare il violino. Allora, la pigrizia (o l'abitudine) lo riprese: - Per il prossimo pezzo mi comprerò un paio di occhiali. Il venditore glieli procurò sfregandosi le mani con aria sorniona. Alessandro inforcò gli occhiali e suonò il pezzo senza errori. Era contento. Ma il vecchio scoppiò a ridere riprendendosi i famosi occhiali, ih-ih-ih. Passò le dita nei fori: erano occhiali senza lenti! - Ma allora...? Che significa tutto questo? - Significa - ridacchiò il venditore - che ora conosci la musica e non hai più bisogno di occhiali! Alessandro aggrottò le sopracciglia, «È ancora un tormento» pensò. Ma sollevò l'archetto e suonò di nuovo il pezzo senza occhiali. Quando ebbe terminato, senza una sola nota falsa, restò un momento in silenzio con l'archetto in aria. Era commosso. (Tratto e adattato da: V. Rivais, Calma e sangue freddo!, Trieste, EMME EDIZIONI, 1993)
A5. “- Può lasciarmi esercitare qui da lei, in segreto?” (riga 67). Da questa frase si capisce che Alessandro ha tre esigenze: A. vuole esercitarsi a suonare B. vuole esercitarsi dal vecchio cinese C. vuole esercitarsi in segreto. Indica quali ragioni spiegano il perché di ciascuna esigenza. c) Vuole farcela da solo. È UNA RAGIONE PER CUI… - vuole esercitarsi / è dal cinese / è in segreto
vuole esercitarsi
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vuole esercitarsi
è dal cinese che vuole esercitarsi
è in segreto che vuole esercitarsi
Gli occhiali musicali -1- Alessandro non amava il solfeggio, e addirittura confondeva le note: do re mi sai fo li so da. Che pasticci! Il suo violino strideva: criiiiiiiiiii-ing! - È un tormento! - diceva Alessandro. - Faresti meglio a comprarti un paio di occhiali! - sogghignava il maestro di musica. E così Alessandro si comprò gli occhiali. Il venditore di occhiali musicali era un vecchio cinese curvo e grinzoso; non faceva che ridere con aria beffarda, stropicciandosi le mani: - lh-ih-ih! So bene che cosa ti occorre! Eccoti degli occhiali per leggere il tuo metodo di solfeggio! -2- Erano occhiali prodigiosi. Più nessun bisogno di studiare. Alessandro inforcava gli occhiali e suonava tutto lo spartito senza sforzo. - Che progressi! - esclamò il maestro di musica. - Mai visto niente di simile! Alessandro tornò a casa tutto compiaciuto e ripose il violino in un angolo. Non valeva più la pena di affaticarsi. Ma il mercoledì seguente, che disastro! Aperto il «Metodo di violino», Alessandro inforcò gli occhiali, sollevò l'archetto, e... non riusciva a leggere l'esercizio! - Che aspetti per cominciare? - chiese il maestro, impaziente. - Eeeh ....lo ... Glub ...... Non so ..... - farfugliò penosamente Alessandro. Ripose il violino nell'astuccio, richiuse il «Metodo»; e allora capì che cos'era successo! Aveva comprato degli occhiali per il metodo numero uno, e invece era il numero due quello che avrebbe dovuto decifrare: si era sbagliato! E allora? - È vero - disse il vecchio venditore di occhiali sfregandosi le mani. - Per ogni singolo metodo esistono occhiali particolari. Bisogna cambiare occhiali ogni volta che cambi metodo! - È un tormento! - gemeva Alessandro. Comprò un secondo paio di occhiali. -3- - Sono contento di te, - dichiarò il maestro di musica - potresti studiarmi questo pezzo di Bach per la settimana prossima? Era una partitura difficile. Corse dal vecchio cinese, che lo rassicurò. Ma sì, vendeva anche gli occhiali per suonare quel pezzo di Bach. Alessandro comprò gli occhiali. E nelle settimane che seguirono, comprò altri occhiali per suonare pezzi di Mozart, Beethoven e perfino Esposito-Brambilla. Dicevano che era dotato, che leggeva a meraviglia i pezzi più arzigogolati. Un bel giorno il maestro di musica annunciò: - Daremo un concerto. - Eeeh.... lo..... Glub... No grazie... - farfugliò Alessandro. Si vergognava, aveva paura; però possedeva una cinquantina di paia di occhiali musicali. Il concerto fu un successo. Alessandro venne invitato a suonare alla radio, alla televisione, la sua fotografia era sul giornale. Ma ora possedeva quasi trecento paia di occhiali. (Gli succedeva d'altronde di comprare dei pezzi di musica che il maestro non gli aveva chiesto: li suonava a casa, per suo piacere personale.) - lh-ih-ih ! Cominci ad amare la musica! - ridacchiava il vecchio cinese, sfregandosi le mani. Alessandro non rispondeva. Di nascosto, aveva cercato di leggere dei pezzi di musica senza occhiali. Un disastro! Le note si confondevano come prima. Do rol ma fi sa lo si da! Saltabeccavano sugli spartiti come migliaia di pulci! Si nascondevano dietro le stanghette delle battute come tante pecore quando saltano le staccionate! Erano bianche, nere, di tanti colori! E c'erano pause dappertutto, ma le pause più angosciose erano quelle di Alessandro! - È un tormentooooo! - piagnucolava. Aveva una gran voglia di essere smascherato! -4- Un giorno che era a scuola, successe il disastro. La sua mamma, nel fare le grandi pulizie, scoprì la collezione di occhiali. Li prese per degli stupidi gadget e buttò ogni cosa nella spazzatura! Al suo ritorno, Alessandro non trovò più niente. Si mise a piangere, a gridare, a pestare i piedi. - È un tormentoeeee ! - urlava. Alessandro corse dal venditore di occhiali. Ma il vecchio cinese gli spiegò, sfregandosi le mani, che non possedeva duplicati dei famosi occhiali musicali. Poverino! Come confessare al maestro di musica, ai genitori, ai compagni, agli ammiratori e alle ammiratrici di essere un imbroglione! Tornò a casa e si mise a letto per farsi credere malato. Pensa e ripensa Di colpo balzò giù dal letto e tornò dal venditore di occhiali: -Voglio imparare i vecchi pezzi! - gli disse. - Può lasciarmi esercitare qui da lei, in segreto? Il cinese si sfregò le mani con un sorriso largo così, perché era proprio quello che aveva sperato. -5- Per settimane, per mesi, a mezzogiorno e alla sera, Alessandro prese la strada del piccolo negozio invece di andare a giocare con gli amici. E un po' alla volta imparò il solfeggio. Do re mi fa sol la si do. Facile. Imparò la chiave di sol, la chiave di fa, la chiave di do e tutto il resto del mazzo di chiavi. Un giorno, suonando i vecchi pezzi, riuscì a far cantare il violino. Allora, la pigrizia (o l'abitudine) lo riprese: - Per il prossimo pezzo mi comprerò un paio di occhiali. Il venditore glieli procurò sfregandosi le mani con aria sorniona. Alessandro inforcò gli occhiali e suonò il pezzo senza errori. Era contento. Ma il vecchio scoppiò a ridere riprendendosi i famosi occhiali, ih-ih-ih. Passò le dita nei fori: erano occhiali senza lenti! - Ma allora...? Che significa tutto questo? - Significa - ridacchiò il venditore - che ora conosci la musica e non hai più bisogno di occhiali! Alessandro aggrottò le sopracciglia, «È ancora un tormento» pensò. Ma sollevò l'archetto e suonò di nuovo il pezzo senza occhiali. Quando ebbe terminato, senza una sola nota falsa, restò un momento in silenzio con l'archetto in aria. Era commosso. (Tratto e adattato da: V. Rivais, Calma e sangue freddo!, Trieste, EMME EDIZIONI, 1993)
A5. “- Può lasciarmi esercitare qui da lei, in segreto?” (riga 67). Da questa frase si capisce che Alessandro ha tre esigenze: A. vuole esercitarsi a suonare B. vuole esercitarsi dal vecchio cinese C. vuole esercitarsi in segreto. Indica quali ragioni spiegano il perché di ciascuna esigenza. d) Vuole imparare a suonare. È UNA RAGIONE PER CUI… - vuole esercitarsi / è dal cinese / è in segreto
vuole esercitarsi
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è in segreto che vuole esercitarsi
Gli occhiali musicali -1- Alessandro non amava il solfeggio, e addirittura confondeva le note: do re mi sai fo li so da. Che pasticci! Il suo violino strideva: criiiiiiiiiii-ing! - È un tormento! - diceva Alessandro. - Faresti meglio a comprarti un paio di occhiali! - sogghignava il maestro di musica. E così Alessandro si comprò gli occhiali. Il venditore di occhiali musicali era un vecchio cinese curvo e grinzoso; non faceva che ridere con aria beffarda, stropicciandosi le mani: - lh-ih-ih! So bene che cosa ti occorre! Eccoti degli occhiali per leggere il tuo metodo di solfeggio! -2- Erano occhiali prodigiosi. Più nessun bisogno di studiare. Alessandro inforcava gli occhiali e suonava tutto lo spartito senza sforzo. - Che progressi! - esclamò il maestro di musica. - Mai visto niente di simile! Alessandro tornò a casa tutto compiaciuto e ripose il violino in un angolo. Non valeva più la pena di affaticarsi. Ma il mercoledì seguente, che disastro! Aperto il «Metodo di violino», Alessandro inforcò gli occhiali, sollevò l'archetto, e... non riusciva a leggere l'esercizio! - Che aspetti per cominciare? - chiese il maestro, impaziente. - Eeeh ....lo ... Glub ...... Non so ..... - farfugliò penosamente Alessandro. Ripose il violino nell'astuccio, richiuse il «Metodo»; e allora capì che cos'era successo! Aveva comprato degli occhiali per il metodo numero uno, e invece era il numero due quello che avrebbe dovuto decifrare: si era sbagliato! E allora? - È vero - disse il vecchio venditore di occhiali sfregandosi le mani. - Per ogni singolo metodo esistono occhiali particolari. Bisogna cambiare occhiali ogni volta che cambi metodo! - È un tormento! - gemeva Alessandro. Comprò un secondo paio di occhiali. -3- - Sono contento di te, - dichiarò il maestro di musica - potresti studiarmi questo pezzo di Bach per la settimana prossima? Era una partitura difficile. Corse dal vecchio cinese, che lo rassicurò. Ma sì, vendeva anche gli occhiali per suonare quel pezzo di Bach. Alessandro comprò gli occhiali. E nelle settimane che seguirono, comprò altri occhiali per suonare pezzi di Mozart, Beethoven e perfino Esposito-Brambilla. Dicevano che era dotato, che leggeva a meraviglia i pezzi più arzigogolati. Un bel giorno il maestro di musica annunciò: - Daremo un concerto. - Eeeh.... lo..... Glub... No grazie... - farfugliò Alessandro. Si vergognava, aveva paura; però possedeva una cinquantina di paia di occhiali musicali. Il concerto fu un successo. Alessandro venne invitato a suonare alla radio, alla televisione, la sua fotografia era sul giornale. Ma ora possedeva quasi trecento paia di occhiali. (Gli succedeva d'altronde di comprare dei pezzi di musica che il maestro non gli aveva chiesto: li suonava a casa, per suo piacere personale.) - lh-ih-ih ! Cominci ad amare la musica! - ridacchiava il vecchio cinese, sfregandosi le mani. Alessandro non rispondeva. Di nascosto, aveva cercato di leggere dei pezzi di musica senza occhiali. Un disastro! Le note si confondevano come prima. Do rol ma fi sa lo si da! Saltabeccavano sugli spartiti come migliaia di pulci! Si nascondevano dietro le stanghette delle battute come tante pecore quando saltano le staccionate! Erano bianche, nere, di tanti colori! E c'erano pause dappertutto, ma le pause più angosciose erano quelle di Alessandro! - È un tormentooooo! - piagnucolava. Aveva una gran voglia di essere smascherato! -4- Un giorno che era a scuola, successe il disastro. La sua mamma, nel fare le grandi pulizie, scoprì la collezione di occhiali. Li prese per degli stupidi gadget e buttò ogni cosa nella spazzatura! Al suo ritorno, Alessandro non trovò più niente. Si mise a piangere, a gridare, a pestare i piedi. - È un tormentoeeee ! - urlava. Alessandro corse dal venditore di occhiali. Ma il vecchio cinese gli spiegò, sfregandosi le mani, che non possedeva duplicati dei famosi occhiali musicali. Poverino! Come confessare al maestro di musica, ai genitori, ai compagni, agli ammiratori e alle ammiratrici di essere un imbroglione! Tornò a casa e si mise a letto per farsi credere malato. Pensa e ripensa Di colpo balzò giù dal letto e tornò dal venditore di occhiali: -Voglio imparare i vecchi pezzi! - gli disse. - Può lasciarmi esercitare qui da lei, in segreto? Il cinese si sfregò le mani con un sorriso largo così, perché era proprio quello che aveva sperato. -5- Per settimane, per mesi, a mezzogiorno e alla sera, Alessandro prese la strada del piccolo negozio invece di andare a giocare con gli amici. E un po' alla volta imparò il solfeggio. Do re mi fa sol la si do. Facile. Imparò la chiave di sol, la chiave di fa, la chiave di do e tutto il resto del mazzo di chiavi. Un giorno, suonando i vecchi pezzi, riuscì a far cantare il violino. Allora, la pigrizia (o l'abitudine) lo riprese: - Per il prossimo pezzo mi comprerò un paio di occhiali. Il venditore glieli procurò sfregandosi le mani con aria sorniona. Alessandro inforcò gli occhiali e suonò il pezzo senza errori. Era contento. Ma il vecchio scoppiò a ridere riprendendosi i famosi occhiali, ih-ih-ih. Passò le dita nei fori: erano occhiali senza lenti! - Ma allora...? Che significa tutto questo? - Significa - ridacchiò il venditore - che ora conosci la musica e non hai più bisogno di occhiali! Alessandro aggrottò le sopracciglia, «È ancora un tormento» pensò. Ma sollevò l'archetto e suonò di nuovo il pezzo senza occhiali. Quando ebbe terminato, senza una sola nota falsa, restò un momento in silenzio con l'archetto in aria. Era commosso. (Tratto e adattato da: V. Rivais, Calma e sangue freddo!, Trieste, EMME EDIZIONI, 1993)
A5. “- Può lasciarmi esercitare qui da lei, in segreto?” (riga 67). Da questa frase si capisce che Alessandro ha tre esigenze: A. vuole esercitarsi a suonare B. vuole esercitarsi dal vecchio cinese C. vuole esercitarsi in segreto. Indica quali ragioni spiegano il perché di ciascuna esigenza. e) Si fida del vecchio cinese. È UNA RAGIONE PER CUI… - vuole esercitarsi / è dal cinese / è in segreto
è dal cinese che vuole esercitarsi
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vuole esercitarsi
è dal cinese che vuole esercitarsi
è in segreto che vuole esercitarsi
Gli occhiali musicali -1- Alessandro non amava il solfeggio, e addirittura confondeva le note: do re mi sai fo li so da. Che pasticci! Il suo violino strideva: criiiiiiiiiii-ing! - È un tormento! - diceva Alessandro. - Faresti meglio a comprarti un paio di occhiali! - sogghignava il maestro di musica. E così Alessandro si comprò gli occhiali. Il venditore di occhiali musicali era un vecchio cinese curvo e grinzoso; non faceva che ridere con aria beffarda, stropicciandosi le mani: - lh-ih-ih! So bene che cosa ti occorre! Eccoti degli occhiali per leggere il tuo metodo di solfeggio! -2- Erano occhiali prodigiosi. Più nessun bisogno di studiare. Alessandro inforcava gli occhiali e suonava tutto lo spartito senza sforzo. - Che progressi! - esclamò il maestro di musica. - Mai visto niente di simile! Alessandro tornò a casa tutto compiaciuto e ripose il violino in un angolo. Non valeva più la pena di affaticarsi. Ma il mercoledì seguente, che disastro! Aperto il «Metodo di violino», Alessandro inforcò gli occhiali, sollevò l'archetto, e... non riusciva a leggere l'esercizio! - Che aspetti per cominciare? - chiese il maestro, impaziente. - Eeeh ....lo ... Glub ...... Non so ..... - farfugliò penosamente Alessandro. Ripose il violino nell'astuccio, richiuse il «Metodo»; e allora capì che cos'era successo! Aveva comprato degli occhiali per il metodo numero uno, e invece era il numero due quello che avrebbe dovuto decifrare: si era sbagliato! E allora? - È vero - disse il vecchio venditore di occhiali sfregandosi le mani. - Per ogni singolo metodo esistono occhiali particolari. Bisogna cambiare occhiali ogni volta che cambi metodo! - È un tormento! - gemeva Alessandro. Comprò un secondo paio di occhiali. -3- - Sono contento di te, - dichiarò il maestro di musica - potresti studiarmi questo pezzo di Bach per la settimana prossima? Era una partitura difficile. Corse dal vecchio cinese, che lo rassicurò. Ma sì, vendeva anche gli occhiali per suonare quel pezzo di Bach. Alessandro comprò gli occhiali. E nelle settimane che seguirono, comprò altri occhiali per suonare pezzi di Mozart, Beethoven e perfino Esposito-Brambilla. Dicevano che era dotato, che leggeva a meraviglia i pezzi più arzigogolati. Un bel giorno il maestro di musica annunciò: - Daremo un concerto. - Eeeh.... lo..... Glub... No grazie... - farfugliò Alessandro. Si vergognava, aveva paura; però possedeva una cinquantina di paia di occhiali musicali. Il concerto fu un successo. Alessandro venne invitato a suonare alla radio, alla televisione, la sua fotografia era sul giornale. Ma ora possedeva quasi trecento paia di occhiali. (Gli succedeva d'altronde di comprare dei pezzi di musica che il maestro non gli aveva chiesto: li suonava a casa, per suo piacere personale.) - lh-ih-ih ! Cominci ad amare la musica! - ridacchiava il vecchio cinese, sfregandosi le mani. Alessandro non rispondeva. Di nascosto, aveva cercato di leggere dei pezzi di musica senza occhiali. Un disastro! Le note si confondevano come prima. Do rol ma fi sa lo si da! Saltabeccavano sugli spartiti come migliaia di pulci! Si nascondevano dietro le stanghette delle battute come tante pecore quando saltano le staccionate! Erano bianche, nere, di tanti colori! E c'erano pause dappertutto, ma le pause più angosciose erano quelle di Alessandro! - È un tormentooooo! - piagnucolava. Aveva una gran voglia di essere smascherato! -4- Un giorno che era a scuola, successe il disastro. La sua mamma, nel fare le grandi pulizie, scoprì la collezione di occhiali. Li prese per degli stupidi gadget e buttò ogni cosa nella spazzatura! Al suo ritorno, Alessandro non trovò più niente. Si mise a piangere, a gridare, a pestare i piedi. - È un tormentoeeee ! - urlava. Alessandro corse dal venditore di occhiali. Ma il vecchio cinese gli spiegò, sfregandosi le mani, che non possedeva duplicati dei famosi occhiali musicali. Poverino! Come confessare al maestro di musica, ai genitori, ai compagni, agli ammiratori e alle ammiratrici di essere un imbroglione! Tornò a casa e si mise a letto per farsi credere malato. Pensa e ripensa Di colpo balzò giù dal letto e tornò dal venditore di occhiali: -Voglio imparare i vecchi pezzi! - gli disse. - Può lasciarmi esercitare qui da lei, in segreto? Il cinese si sfregò le mani con un sorriso largo così, perché era proprio quello che aveva sperato. -5- Per settimane, per mesi, a mezzogiorno e alla sera, Alessandro prese la strada del piccolo negozio invece di andare a giocare con gli amici. E un po' alla volta imparò il solfeggio. Do re mi fa sol la si do. Facile. Imparò la chiave di sol, la chiave di fa, la chiave di do e tutto il resto del mazzo di chiavi. Un giorno, suonando i vecchi pezzi, riuscì a far cantare il violino. Allora, la pigrizia (o l'abitudine) lo riprese: - Per il prossimo pezzo mi comprerò un paio di occhiali. Il venditore glieli procurò sfregandosi le mani con aria sorniona. Alessandro inforcò gli occhiali e suonò il pezzo senza errori. Era contento. Ma il vecchio scoppiò a ridere riprendendosi i famosi occhiali, ih-ih-ih. Passò le dita nei fori: erano occhiali senza lenti! - Ma allora...? Che significa tutto questo? - Significa - ridacchiò il venditore - che ora conosci la musica e non hai più bisogno di occhiali! Alessandro aggrottò le sopracciglia, «È ancora un tormento» pensò. Ma sollevò l'archetto e suonò di nuovo il pezzo senza occhiali. Quando ebbe terminato, senza una sola nota falsa, restò un momento in silenzio con l'archetto in aria. Era commosso. (Tratto e adattato da: V. Rivais, Calma e sangue freddo!, Trieste, EMME EDIZIONI, 1993)
A8. “Alessandro non amava il solfeggio, e addirittura confondeva le note” (riga 1). La frase “addirittura confondeva le note” aiuta a capire la ragione di alcune cose che vengono raccontate nel paragrafo 1 del testo. Quali? a) la ragione per cui il violino stride (riga 2) – aiuta a capire/non aiuta a capire
aiuta a capire
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2018_05_SNV_A
binaria
aiuta a capire
non aiuta a capire
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Gli occhiali musicali -1- Alessandro non amava il solfeggio, e addirittura confondeva le note: do re mi sai fo li so da. Che pasticci! Il suo violino strideva: criiiiiiiiiii-ing! - È un tormento! - diceva Alessandro. - Faresti meglio a comprarti un paio di occhiali! - sogghignava il maestro di musica. E così Alessandro si comprò gli occhiali. Il venditore di occhiali musicali era un vecchio cinese curvo e grinzoso; non faceva che ridere con aria beffarda, stropicciandosi le mani: - lh-ih-ih! So bene che cosa ti occorre! Eccoti degli occhiali per leggere il tuo metodo di solfeggio! -2- Erano occhiali prodigiosi. Più nessun bisogno di studiare. Alessandro inforcava gli occhiali e suonava tutto lo spartito senza sforzo. - Che progressi! - esclamò il maestro di musica. - Mai visto niente di simile! Alessandro tornò a casa tutto compiaciuto e ripose il violino in un angolo. Non valeva più la pena di affaticarsi. Ma il mercoledì seguente, che disastro! Aperto il «Metodo di violino», Alessandro inforcò gli occhiali, sollevò l'archetto, e... non riusciva a leggere l'esercizio! - Che aspetti per cominciare? - chiese il maestro, impaziente. - Eeeh ....lo ... Glub ...... Non so ..... - farfugliò penosamente Alessandro. Ripose il violino nell'astuccio, richiuse il «Metodo»; e allora capì che cos'era successo! Aveva comprato degli occhiali per il metodo numero uno, e invece era il numero due quello che avrebbe dovuto decifrare: si era sbagliato! E allora? - È vero - disse il vecchio venditore di occhiali sfregandosi le mani. - Per ogni singolo metodo esistono occhiali particolari. Bisogna cambiare occhiali ogni volta che cambi metodo! - È un tormento! - gemeva Alessandro. Comprò un secondo paio di occhiali. -3- - Sono contento di te, - dichiarò il maestro di musica - potresti studiarmi questo pezzo di Bach per la settimana prossima? Era una partitura difficile. Corse dal vecchio cinese, che lo rassicurò. Ma sì, vendeva anche gli occhiali per suonare quel pezzo di Bach. Alessandro comprò gli occhiali. E nelle settimane che seguirono, comprò altri occhiali per suonare pezzi di Mozart, Beethoven e perfino Esposito-Brambilla. Dicevano che era dotato, che leggeva a meraviglia i pezzi più arzigogolati. Un bel giorno il maestro di musica annunciò: - Daremo un concerto. - Eeeh.... lo..... Glub... No grazie... - farfugliò Alessandro. Si vergognava, aveva paura; però possedeva una cinquantina di paia di occhiali musicali. Il concerto fu un successo. Alessandro venne invitato a suonare alla radio, alla televisione, la sua fotografia era sul giornale. Ma ora possedeva quasi trecento paia di occhiali. (Gli succedeva d'altronde di comprare dei pezzi di musica che il maestro non gli aveva chiesto: li suonava a casa, per suo piacere personale.) - lh-ih-ih ! Cominci ad amare la musica! - ridacchiava il vecchio cinese, sfregandosi le mani. Alessandro non rispondeva. Di nascosto, aveva cercato di leggere dei pezzi di musica senza occhiali. Un disastro! Le note si confondevano come prima. Do rol ma fi sa lo si da! Saltabeccavano sugli spartiti come migliaia di pulci! Si nascondevano dietro le stanghette delle battute come tante pecore quando saltano le staccionate! Erano bianche, nere, di tanti colori! E c'erano pause dappertutto, ma le pause più angosciose erano quelle di Alessandro! - È un tormentooooo! - piagnucolava. Aveva una gran voglia di essere smascherato! -4- Un giorno che era a scuola, successe il disastro. La sua mamma, nel fare le grandi pulizie, scoprì la collezione di occhiali. Li prese per degli stupidi gadget e buttò ogni cosa nella spazzatura! Al suo ritorno, Alessandro non trovò più niente. Si mise a piangere, a gridare, a pestare i piedi. - È un tormentoeeee ! - urlava. Alessandro corse dal venditore di occhiali. Ma il vecchio cinese gli spiegò, sfregandosi le mani, che non possedeva duplicati dei famosi occhiali musicali. Poverino! Come confessare al maestro di musica, ai genitori, ai compagni, agli ammiratori e alle ammiratrici di essere un imbroglione! Tornò a casa e si mise a letto per farsi credere malato. Pensa e ripensa Di colpo balzò giù dal letto e tornò dal venditore di occhiali: -Voglio imparare i vecchi pezzi! - gli disse. - Può lasciarmi esercitare qui da lei, in segreto? Il cinese si sfregò le mani con un sorriso largo così, perché era proprio quello che aveva sperato. -5- Per settimane, per mesi, a mezzogiorno e alla sera, Alessandro prese la strada del piccolo negozio invece di andare a giocare con gli amici. E un po' alla volta imparò il solfeggio. Do re mi fa sol la si do. Facile. Imparò la chiave di sol, la chiave di fa, la chiave di do e tutto il resto del mazzo di chiavi. Un giorno, suonando i vecchi pezzi, riuscì a far cantare il violino. Allora, la pigrizia (o l'abitudine) lo riprese: - Per il prossimo pezzo mi comprerò un paio di occhiali. Il venditore glieli procurò sfregandosi le mani con aria sorniona. Alessandro inforcò gli occhiali e suonò il pezzo senza errori. Era contento. Ma il vecchio scoppiò a ridere riprendendosi i famosi occhiali, ih-ih-ih. Passò le dita nei fori: erano occhiali senza lenti! - Ma allora...? Che significa tutto questo? - Significa - ridacchiò il venditore - che ora conosci la musica e non hai più bisogno di occhiali! Alessandro aggrottò le sopracciglia, «È ancora un tormento» pensò. Ma sollevò l'archetto e suonò di nuovo il pezzo senza occhiali. Quando ebbe terminato, senza una sola nota falsa, restò un momento in silenzio con l'archetto in aria. Era commosso. (Tratto e adattato da: V. Rivais, Calma e sangue freddo!, Trieste, EMME EDIZIONI, 1993)
A8. “Alessandro non amava il solfeggio, e addirittura confondeva le note” (riga 1). La frase “addirittura confondeva le note” aiuta a capire la ragione di alcune cose che vengono raccontate nel paragrafo 1 del testo. Quali? b) la ragione per cui Alessandro si lamenta e dice “è un tormento” (riga 3) – aiuta a capire/non aiuta a capire
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Gli occhiali musicali -1- Alessandro non amava il solfeggio, e addirittura confondeva le note: do re mi sai fo li so da. Che pasticci! Il suo violino strideva: criiiiiiiiiii-ing! - È un tormento! - diceva Alessandro. - Faresti meglio a comprarti un paio di occhiali! - sogghignava il maestro di musica. E così Alessandro si comprò gli occhiali. Il venditore di occhiali musicali era un vecchio cinese curvo e grinzoso; non faceva che ridere con aria beffarda, stropicciandosi le mani: - lh-ih-ih! So bene che cosa ti occorre! Eccoti degli occhiali per leggere il tuo metodo di solfeggio! -2- Erano occhiali prodigiosi. Più nessun bisogno di studiare. Alessandro inforcava gli occhiali e suonava tutto lo spartito senza sforzo. - Che progressi! - esclamò il maestro di musica. - Mai visto niente di simile! Alessandro tornò a casa tutto compiaciuto e ripose il violino in un angolo. Non valeva più la pena di affaticarsi. Ma il mercoledì seguente, che disastro! Aperto il «Metodo di violino», Alessandro inforcò gli occhiali, sollevò l'archetto, e... non riusciva a leggere l'esercizio! - Che aspetti per cominciare? - chiese il maestro, impaziente. - Eeeh ....lo ... Glub ...... Non so ..... - farfugliò penosamente Alessandro. Ripose il violino nell'astuccio, richiuse il «Metodo»; e allora capì che cos'era successo! Aveva comprato degli occhiali per il metodo numero uno, e invece era il numero due quello che avrebbe dovuto decifrare: si era sbagliato! E allora? - È vero - disse il vecchio venditore di occhiali sfregandosi le mani. - Per ogni singolo metodo esistono occhiali particolari. Bisogna cambiare occhiali ogni volta che cambi metodo! - È un tormento! - gemeva Alessandro. Comprò un secondo paio di occhiali. -3- - Sono contento di te, - dichiarò il maestro di musica - potresti studiarmi questo pezzo di Bach per la settimana prossima? Era una partitura difficile. Corse dal vecchio cinese, che lo rassicurò. Ma sì, vendeva anche gli occhiali per suonare quel pezzo di Bach. Alessandro comprò gli occhiali. E nelle settimane che seguirono, comprò altri occhiali per suonare pezzi di Mozart, Beethoven e perfino Esposito-Brambilla. Dicevano che era dotato, che leggeva a meraviglia i pezzi più arzigogolati. Un bel giorno il maestro di musica annunciò: - Daremo un concerto. - Eeeh.... lo..... Glub... No grazie... - farfugliò Alessandro. Si vergognava, aveva paura; però possedeva una cinquantina di paia di occhiali musicali. Il concerto fu un successo. Alessandro venne invitato a suonare alla radio, alla televisione, la sua fotografia era sul giornale. Ma ora possedeva quasi trecento paia di occhiali. (Gli succedeva d'altronde di comprare dei pezzi di musica che il maestro non gli aveva chiesto: li suonava a casa, per suo piacere personale.) - lh-ih-ih ! Cominci ad amare la musica! - ridacchiava il vecchio cinese, sfregandosi le mani. Alessandro non rispondeva. Di nascosto, aveva cercato di leggere dei pezzi di musica senza occhiali. Un disastro! Le note si confondevano come prima. Do rol ma fi sa lo si da! Saltabeccavano sugli spartiti come migliaia di pulci! Si nascondevano dietro le stanghette delle battute come tante pecore quando saltano le staccionate! Erano bianche, nere, di tanti colori! E c'erano pause dappertutto, ma le pause più angosciose erano quelle di Alessandro! - È un tormentooooo! - piagnucolava. Aveva una gran voglia di essere smascherato! -4- Un giorno che era a scuola, successe il disastro. La sua mamma, nel fare le grandi pulizie, scoprì la collezione di occhiali. Li prese per degli stupidi gadget e buttò ogni cosa nella spazzatura! Al suo ritorno, Alessandro non trovò più niente. Si mise a piangere, a gridare, a pestare i piedi. - È un tormentoeeee ! - urlava. Alessandro corse dal venditore di occhiali. Ma il vecchio cinese gli spiegò, sfregandosi le mani, che non possedeva duplicati dei famosi occhiali musicali. Poverino! Come confessare al maestro di musica, ai genitori, ai compagni, agli ammiratori e alle ammiratrici di essere un imbroglione! Tornò a casa e si mise a letto per farsi credere malato. Pensa e ripensa Di colpo balzò giù dal letto e tornò dal venditore di occhiali: -Voglio imparare i vecchi pezzi! - gli disse. - Può lasciarmi esercitare qui da lei, in segreto? Il cinese si sfregò le mani con un sorriso largo così, perché era proprio quello che aveva sperato. -5- Per settimane, per mesi, a mezzogiorno e alla sera, Alessandro prese la strada del piccolo negozio invece di andare a giocare con gli amici. E un po' alla volta imparò il solfeggio. Do re mi fa sol la si do. Facile. Imparò la chiave di sol, la chiave di fa, la chiave di do e tutto il resto del mazzo di chiavi. Un giorno, suonando i vecchi pezzi, riuscì a far cantare il violino. Allora, la pigrizia (o l'abitudine) lo riprese: - Per il prossimo pezzo mi comprerò un paio di occhiali. Il venditore glieli procurò sfregandosi le mani con aria sorniona. Alessandro inforcò gli occhiali e suonò il pezzo senza errori. Era contento. Ma il vecchio scoppiò a ridere riprendendosi i famosi occhiali, ih-ih-ih. Passò le dita nei fori: erano occhiali senza lenti! - Ma allora...? Che significa tutto questo? - Significa - ridacchiò il venditore - che ora conosci la musica e non hai più bisogno di occhiali! Alessandro aggrottò le sopracciglia, «È ancora un tormento» pensò. Ma sollevò l'archetto e suonò di nuovo il pezzo senza occhiali. Quando ebbe terminato, senza una sola nota falsa, restò un momento in silenzio con l'archetto in aria. Era commosso. (Tratto e adattato da: V. Rivais, Calma e sangue freddo!, Trieste, EMME EDIZIONI, 1993)
A8. “Alessandro non amava il solfeggio, e addirittura confondeva le note” (riga 1). La frase “addirittura confondeva le note” aiuta a capire la ragione di alcune cose che vengono raccontate nel paragrafo 1 del testo. Quali? c) la ragione per cui il venditore si stropiccia le mani (riga 8) – aiuta a capire/non aiuta a capire
non aiuta a capire
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Gli occhiali musicali -1- Alessandro non amava il solfeggio, e addirittura confondeva le note: do re mi sai fo li so da. Che pasticci! Il suo violino strideva: criiiiiiiiiii-ing! - È un tormento! - diceva Alessandro. - Faresti meglio a comprarti un paio di occhiali! - sogghignava il maestro di musica. E così Alessandro si comprò gli occhiali. Il venditore di occhiali musicali era un vecchio cinese curvo e grinzoso; non faceva che ridere con aria beffarda, stropicciandosi le mani: - lh-ih-ih! So bene che cosa ti occorre! Eccoti degli occhiali per leggere il tuo metodo di solfeggio! -2- Erano occhiali prodigiosi. Più nessun bisogno di studiare. Alessandro inforcava gli occhiali e suonava tutto lo spartito senza sforzo. - Che progressi! - esclamò il maestro di musica. - Mai visto niente di simile! Alessandro tornò a casa tutto compiaciuto e ripose il violino in un angolo. Non valeva più la pena di affaticarsi. Ma il mercoledì seguente, che disastro! Aperto il «Metodo di violino», Alessandro inforcò gli occhiali, sollevò l'archetto, e... non riusciva a leggere l'esercizio! - Che aspetti per cominciare? - chiese il maestro, impaziente. - Eeeh ....lo ... Glub ...... Non so ..... - farfugliò penosamente Alessandro. Ripose il violino nell'astuccio, richiuse il «Metodo»; e allora capì che cos'era successo! Aveva comprato degli occhiali per il metodo numero uno, e invece era il numero due quello che avrebbe dovuto decifrare: si era sbagliato! E allora? - È vero - disse il vecchio venditore di occhiali sfregandosi le mani. - Per ogni singolo metodo esistono occhiali particolari. Bisogna cambiare occhiali ogni volta che cambi metodo! - È un tormento! - gemeva Alessandro. Comprò un secondo paio di occhiali. -3- - Sono contento di te, - dichiarò il maestro di musica - potresti studiarmi questo pezzo di Bach per la settimana prossima? Era una partitura difficile. Corse dal vecchio cinese, che lo rassicurò. Ma sì, vendeva anche gli occhiali per suonare quel pezzo di Bach. Alessandro comprò gli occhiali. E nelle settimane che seguirono, comprò altri occhiali per suonare pezzi di Mozart, Beethoven e perfino Esposito-Brambilla. Dicevano che era dotato, che leggeva a meraviglia i pezzi più arzigogolati. Un bel giorno il maestro di musica annunciò: - Daremo un concerto. - Eeeh.... lo..... Glub... No grazie... - farfugliò Alessandro. Si vergognava, aveva paura; però possedeva una cinquantina di paia di occhiali musicali. Il concerto fu un successo. Alessandro venne invitato a suonare alla radio, alla televisione, la sua fotografia era sul giornale. Ma ora possedeva quasi trecento paia di occhiali. (Gli succedeva d'altronde di comprare dei pezzi di musica che il maestro non gli aveva chiesto: li suonava a casa, per suo piacere personale.) - lh-ih-ih ! Cominci ad amare la musica! - ridacchiava il vecchio cinese, sfregandosi le mani. Alessandro non rispondeva. Di nascosto, aveva cercato di leggere dei pezzi di musica senza occhiali. Un disastro! Le note si confondevano come prima. Do rol ma fi sa lo si da! Saltabeccavano sugli spartiti come migliaia di pulci! Si nascondevano dietro le stanghette delle battute come tante pecore quando saltano le staccionate! Erano bianche, nere, di tanti colori! E c'erano pause dappertutto, ma le pause più angosciose erano quelle di Alessandro! - È un tormentooooo! - piagnucolava. Aveva una gran voglia di essere smascherato! -4- Un giorno che era a scuola, successe il disastro. La sua mamma, nel fare le grandi pulizie, scoprì la collezione di occhiali. Li prese per degli stupidi gadget e buttò ogni cosa nella spazzatura! Al suo ritorno, Alessandro non trovò più niente. Si mise a piangere, a gridare, a pestare i piedi. - È un tormentoeeee ! - urlava. Alessandro corse dal venditore di occhiali. Ma il vecchio cinese gli spiegò, sfregandosi le mani, che non possedeva duplicati dei famosi occhiali musicali. Poverino! Come confessare al maestro di musica, ai genitori, ai compagni, agli ammiratori e alle ammiratrici di essere un imbroglione! Tornò a casa e si mise a letto per farsi credere malato. Pensa e ripensa Di colpo balzò giù dal letto e tornò dal venditore di occhiali: -Voglio imparare i vecchi pezzi! - gli disse. - Può lasciarmi esercitare qui da lei, in segreto? Il cinese si sfregò le mani con un sorriso largo così, perché era proprio quello che aveva sperato. -5- Per settimane, per mesi, a mezzogiorno e alla sera, Alessandro prese la strada del piccolo negozio invece di andare a giocare con gli amici. E un po' alla volta imparò il solfeggio. Do re mi fa sol la si do. Facile. Imparò la chiave di sol, la chiave di fa, la chiave di do e tutto il resto del mazzo di chiavi. Un giorno, suonando i vecchi pezzi, riuscì a far cantare il violino. Allora, la pigrizia (o l'abitudine) lo riprese: - Per il prossimo pezzo mi comprerò un paio di occhiali. Il venditore glieli procurò sfregandosi le mani con aria sorniona. Alessandro inforcò gli occhiali e suonò il pezzo senza errori. Era contento. Ma il vecchio scoppiò a ridere riprendendosi i famosi occhiali, ih-ih-ih. Passò le dita nei fori: erano occhiali senza lenti! - Ma allora...? Che significa tutto questo? - Significa - ridacchiò il venditore - che ora conosci la musica e non hai più bisogno di occhiali! Alessandro aggrottò le sopracciglia, «È ancora un tormento» pensò. Ma sollevò l'archetto e suonò di nuovo il pezzo senza occhiali. Quando ebbe terminato, senza una sola nota falsa, restò un momento in silenzio con l'archetto in aria. Era commosso. (Tratto e adattato da: V. Rivais, Calma e sangue freddo!, Trieste, EMME EDIZIONI, 1993)
A8. “Alessandro non amava il solfeggio, e addirittura confondeva le note” (riga 1). La frase “addirittura confondeva le note” aiuta a capire la ragione di alcune cose che vengono raccontate nel paragrafo 1 del testo. Quali? d) la ragione per cui il venditore non fa che ridere con aria beffarda (riga 8) – aiuta a capire/non aiuta a capire
non aiuta a capire
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aiuta a capire
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Gli occhiali musicali -1- Alessandro non amava il solfeggio, e addirittura confondeva le note: do re mi sai fo li so da. Che pasticci! Il suo violino strideva: criiiiiiiiiii-ing! - È un tormento! - diceva Alessandro. - Faresti meglio a comprarti un paio di occhiali! - sogghignava il maestro di musica. E così Alessandro si comprò gli occhiali. Il venditore di occhiali musicali era un vecchio cinese curvo e grinzoso; non faceva che ridere con aria beffarda, stropicciandosi le mani: - lh-ih-ih! So bene che cosa ti occorre! Eccoti degli occhiali per leggere il tuo metodo di solfeggio! -2- Erano occhiali prodigiosi. Più nessun bisogno di studiare. Alessandro inforcava gli occhiali e suonava tutto lo spartito senza sforzo. - Che progressi! - esclamò il maestro di musica. - Mai visto niente di simile! Alessandro tornò a casa tutto compiaciuto e ripose il violino in un angolo. Non valeva più la pena di affaticarsi. Ma il mercoledì seguente, che disastro! Aperto il «Metodo di violino», Alessandro inforcò gli occhiali, sollevò l'archetto, e... non riusciva a leggere l'esercizio! - Che aspetti per cominciare? - chiese il maestro, impaziente. - Eeeh ....lo ... Glub ...... Non so ..... - farfugliò penosamente Alessandro. Ripose il violino nell'astuccio, richiuse il «Metodo»; e allora capì che cos'era successo! Aveva comprato degli occhiali per il metodo numero uno, e invece era il numero due quello che avrebbe dovuto decifrare: si era sbagliato! E allora? - È vero - disse il vecchio venditore di occhiali sfregandosi le mani. - Per ogni singolo metodo esistono occhiali particolari. Bisogna cambiare occhiali ogni volta che cambi metodo! - È un tormento! - gemeva Alessandro. Comprò un secondo paio di occhiali. -3- - Sono contento di te, - dichiarò il maestro di musica - potresti studiarmi questo pezzo di Bach per la settimana prossima? Era una partitura difficile. Corse dal vecchio cinese, che lo rassicurò. Ma sì, vendeva anche gli occhiali per suonare quel pezzo di Bach. Alessandro comprò gli occhiali. E nelle settimane che seguirono, comprò altri occhiali per suonare pezzi di Mozart, Beethoven e perfino Esposito-Brambilla. Dicevano che era dotato, che leggeva a meraviglia i pezzi più arzigogolati. Un bel giorno il maestro di musica annunciò: - Daremo un concerto. - Eeeh.... lo..... Glub... No grazie... - farfugliò Alessandro. Si vergognava, aveva paura; però possedeva una cinquantina di paia di occhiali musicali. Il concerto fu un successo. Alessandro venne invitato a suonare alla radio, alla televisione, la sua fotografia era sul giornale. Ma ora possedeva quasi trecento paia di occhiali. (Gli succedeva d'altronde di comprare dei pezzi di musica che il maestro non gli aveva chiesto: li suonava a casa, per suo piacere personale.) - lh-ih-ih ! Cominci ad amare la musica! - ridacchiava il vecchio cinese, sfregandosi le mani. Alessandro non rispondeva. Di nascosto, aveva cercato di leggere dei pezzi di musica senza occhiali. Un disastro! Le note si confondevano come prima. Do rol ma fi sa lo si da! Saltabeccavano sugli spartiti come migliaia di pulci! Si nascondevano dietro le stanghette delle battute come tante pecore quando saltano le staccionate! Erano bianche, nere, di tanti colori! E c'erano pause dappertutto, ma le pause più angosciose erano quelle di Alessandro! - È un tormentooooo! - piagnucolava. Aveva una gran voglia di essere smascherato! -4- Un giorno che era a scuola, successe il disastro. La sua mamma, nel fare le grandi pulizie, scoprì la collezione di occhiali. Li prese per degli stupidi gadget e buttò ogni cosa nella spazzatura! Al suo ritorno, Alessandro non trovò più niente. Si mise a piangere, a gridare, a pestare i piedi. - È un tormentoeeee ! - urlava. Alessandro corse dal venditore di occhiali. Ma il vecchio cinese gli spiegò, sfregandosi le mani, che non possedeva duplicati dei famosi occhiali musicali. Poverino! Come confessare al maestro di musica, ai genitori, ai compagni, agli ammiratori e alle ammiratrici di essere un imbroglione! Tornò a casa e si mise a letto per farsi credere malato. Pensa e ripensa Di colpo balzò giù dal letto e tornò dal venditore di occhiali: -Voglio imparare i vecchi pezzi! - gli disse. - Può lasciarmi esercitare qui da lei, in segreto? Il cinese si sfregò le mani con un sorriso largo così, perché era proprio quello che aveva sperato. -5- Per settimane, per mesi, a mezzogiorno e alla sera, Alessandro prese la strada del piccolo negozio invece di andare a giocare con gli amici. E un po' alla volta imparò il solfeggio. Do re mi fa sol la si do. Facile. Imparò la chiave di sol, la chiave di fa, la chiave di do e tutto il resto del mazzo di chiavi. Un giorno, suonando i vecchi pezzi, riuscì a far cantare il violino. Allora, la pigrizia (o l'abitudine) lo riprese: - Per il prossimo pezzo mi comprerò un paio di occhiali. Il venditore glieli procurò sfregandosi le mani con aria sorniona. Alessandro inforcò gli occhiali e suonò il pezzo senza errori. Era contento. Ma il vecchio scoppiò a ridere riprendendosi i famosi occhiali, ih-ih-ih. Passò le dita nei fori: erano occhiali senza lenti! - Ma allora...? Che significa tutto questo? - Significa - ridacchiò il venditore - che ora conosci la musica e non hai più bisogno di occhiali! Alessandro aggrottò le sopracciglia, «È ancora un tormento» pensò. Ma sollevò l'archetto e suonò di nuovo il pezzo senza occhiali. Quando ebbe terminato, senza una sola nota falsa, restò un momento in silenzio con l'archetto in aria. Era commosso. (Tratto e adattato da: V. Rivais, Calma e sangue freddo!, Trieste, EMME EDIZIONI, 1993)
A13. Alla fine della parte di testo nel riquadro, Alessandro chiede: “Ma allora …? Che significa tutto questo?”. Quali informazioni di questa parte ti servono per capire a che cosa si riferisce “tutto questo”? Per ciascuno dei seguenti fatti indica se serve per capire oppure no. a) Alessandro riuscì a suonare il pezzo senza errori - serve per capire/ non serve per capire
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Gli occhiali musicali -1- Alessandro non amava il solfeggio, e addirittura confondeva le note: do re mi sai fo li so da. Che pasticci! Il suo violino strideva: criiiiiiiiiii-ing! - È un tormento! - diceva Alessandro. - Faresti meglio a comprarti un paio di occhiali! - sogghignava il maestro di musica. E così Alessandro si comprò gli occhiali. Il venditore di occhiali musicali era un vecchio cinese curvo e grinzoso; non faceva che ridere con aria beffarda, stropicciandosi le mani: - lh-ih-ih! So bene che cosa ti occorre! Eccoti degli occhiali per leggere il tuo metodo di solfeggio! -2- Erano occhiali prodigiosi. Più nessun bisogno di studiare. Alessandro inforcava gli occhiali e suonava tutto lo spartito senza sforzo. - Che progressi! - esclamò il maestro di musica. - Mai visto niente di simile! Alessandro tornò a casa tutto compiaciuto e ripose il violino in un angolo. Non valeva più la pena di affaticarsi. Ma il mercoledì seguente, che disastro! Aperto il «Metodo di violino», Alessandro inforcò gli occhiali, sollevò l'archetto, e... non riusciva a leggere l'esercizio! - Che aspetti per cominciare? - chiese il maestro, impaziente. - Eeeh ....lo ... Glub ...... Non so ..... - farfugliò penosamente Alessandro. Ripose il violino nell'astuccio, richiuse il «Metodo»; e allora capì che cos'era successo! Aveva comprato degli occhiali per il metodo numero uno, e invece era il numero due quello che avrebbe dovuto decifrare: si era sbagliato! E allora? - È vero - disse il vecchio venditore di occhiali sfregandosi le mani. - Per ogni singolo metodo esistono occhiali particolari. Bisogna cambiare occhiali ogni volta che cambi metodo! - È un tormento! - gemeva Alessandro. Comprò un secondo paio di occhiali. -3- - Sono contento di te, - dichiarò il maestro di musica - potresti studiarmi questo pezzo di Bach per la settimana prossima? Era una partitura difficile. Corse dal vecchio cinese, che lo rassicurò. Ma sì, vendeva anche gli occhiali per suonare quel pezzo di Bach. Alessandro comprò gli occhiali. E nelle settimane che seguirono, comprò altri occhiali per suonare pezzi di Mozart, Beethoven e perfino Esposito-Brambilla. Dicevano che era dotato, che leggeva a meraviglia i pezzi più arzigogolati. Un bel giorno il maestro di musica annunciò: - Daremo un concerto. - Eeeh.... lo..... Glub... No grazie... - farfugliò Alessandro. Si vergognava, aveva paura; però possedeva una cinquantina di paia di occhiali musicali. Il concerto fu un successo. Alessandro venne invitato a suonare alla radio, alla televisione, la sua fotografia era sul giornale. Ma ora possedeva quasi trecento paia di occhiali. (Gli succedeva d'altronde di comprare dei pezzi di musica che il maestro non gli aveva chiesto: li suonava a casa, per suo piacere personale.) - lh-ih-ih ! Cominci ad amare la musica! - ridacchiava il vecchio cinese, sfregandosi le mani. Alessandro non rispondeva. Di nascosto, aveva cercato di leggere dei pezzi di musica senza occhiali. Un disastro! Le note si confondevano come prima. Do rol ma fi sa lo si da! Saltabeccavano sugli spartiti come migliaia di pulci! Si nascondevano dietro le stanghette delle battute come tante pecore quando saltano le staccionate! Erano bianche, nere, di tanti colori! E c'erano pause dappertutto, ma le pause più angosciose erano quelle di Alessandro! - È un tormentooooo! - piagnucolava. Aveva una gran voglia di essere smascherato! -4- Un giorno che era a scuola, successe il disastro. La sua mamma, nel fare le grandi pulizie, scoprì la collezione di occhiali. Li prese per degli stupidi gadget e buttò ogni cosa nella spazzatura! Al suo ritorno, Alessandro non trovò più niente. Si mise a piangere, a gridare, a pestare i piedi. - È un tormentoeeee ! - urlava. Alessandro corse dal venditore di occhiali. Ma il vecchio cinese gli spiegò, sfregandosi le mani, che non possedeva duplicati dei famosi occhiali musicali. Poverino! Come confessare al maestro di musica, ai genitori, ai compagni, agli ammiratori e alle ammiratrici di essere un imbroglione! Tornò a casa e si mise a letto per farsi credere malato. Pensa e ripensa Di colpo balzò giù dal letto e tornò dal venditore di occhiali: -Voglio imparare i vecchi pezzi! - gli disse. - Può lasciarmi esercitare qui da lei, in segreto? Il cinese si sfregò le mani con un sorriso largo così, perché era proprio quello che aveva sperato. -5- Per settimane, per mesi, a mezzogiorno e alla sera, Alessandro prese la strada del piccolo negozio invece di andare a giocare con gli amici. E un po' alla volta imparò il solfeggio. Do re mi fa sol la si do. Facile. Imparò la chiave di sol, la chiave di fa, la chiave di do e tutto il resto del mazzo di chiavi. Un giorno, suonando i vecchi pezzi, riuscì a far cantare il violino. Allora, la pigrizia (o l'abitudine) lo riprese: - Per il prossimo pezzo mi comprerò un paio di occhiali. Il venditore glieli procurò sfregandosi le mani con aria sorniona. Alessandro inforcò gli occhiali e suonò il pezzo senza errori. Era contento. Ma il vecchio scoppiò a ridere riprendendosi i famosi occhiali, ih-ih-ih. Passò le dita nei fori: erano occhiali senza lenti! - Ma allora...? Che significa tutto questo? - Significa - ridacchiò il venditore - che ora conosci la musica e non hai più bisogno di occhiali! Alessandro aggrottò le sopracciglia, «È ancora un tormento» pensò. Ma sollevò l'archetto e suonò di nuovo il pezzo senza occhiali. Quando ebbe terminato, senza una sola nota falsa, restò un momento in silenzio con l'archetto in aria. Era commosso. (Tratto e adattato da: V. Rivais, Calma e sangue freddo!, Trieste, EMME EDIZIONI, 1993)
A13, Alla fine della parte di testo nel riquadro, Alessandro chiede: “Ma allora …? Che significa tutto questo?”. Quali informazioni di questa parte ti servono per capire a che cosa si riferisce “tutto questo”? Per ciascuno dei seguenti fatti indica se serve per capire oppure no. b) Alessandro era contento - serve per capire/ non serve
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non serve per capire
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Gli occhiali musicali -1- Alessandro non amava il solfeggio, e addirittura confondeva le note: do re mi sai fo li so da. Che pasticci! Il suo violino strideva: criiiiiiiiiii-ing! - È un tormento! - diceva Alessandro. - Faresti meglio a comprarti un paio di occhiali! - sogghignava il maestro di musica. E così Alessandro si comprò gli occhiali. Il venditore di occhiali musicali era un vecchio cinese curvo e grinzoso; non faceva che ridere con aria beffarda, stropicciandosi le mani: - lh-ih-ih! So bene che cosa ti occorre! Eccoti degli occhiali per leggere il tuo metodo di solfeggio! -2- Erano occhiali prodigiosi. Più nessun bisogno di studiare. Alessandro inforcava gli occhiali e suonava tutto lo spartito senza sforzo. - Che progressi! - esclamò il maestro di musica. - Mai visto niente di simile! Alessandro tornò a casa tutto compiaciuto e ripose il violino in un angolo. Non valeva più la pena di affaticarsi. Ma il mercoledì seguente, che disastro! Aperto il «Metodo di violino», Alessandro inforcò gli occhiali, sollevò l'archetto, e... non riusciva a leggere l'esercizio! - Che aspetti per cominciare? - chiese il maestro, impaziente. - Eeeh ....lo ... Glub ...... Non so ..... - farfugliò penosamente Alessandro. Ripose il violino nell'astuccio, richiuse il «Metodo»; e allora capì che cos'era successo! Aveva comprato degli occhiali per il metodo numero uno, e invece era il numero due quello che avrebbe dovuto decifrare: si era sbagliato! E allora? - È vero - disse il vecchio venditore di occhiali sfregandosi le mani. - Per ogni singolo metodo esistono occhiali particolari. Bisogna cambiare occhiali ogni volta che cambi metodo! - È un tormento! - gemeva Alessandro. Comprò un secondo paio di occhiali. -3- - Sono contento di te, - dichiarò il maestro di musica - potresti studiarmi questo pezzo di Bach per la settimana prossima? Era una partitura difficile. Corse dal vecchio cinese, che lo rassicurò. Ma sì, vendeva anche gli occhiali per suonare quel pezzo di Bach. Alessandro comprò gli occhiali. E nelle settimane che seguirono, comprò altri occhiali per suonare pezzi di Mozart, Beethoven e perfino Esposito-Brambilla. Dicevano che era dotato, che leggeva a meraviglia i pezzi più arzigogolati. Un bel giorno il maestro di musica annunciò: - Daremo un concerto. - Eeeh.... lo..... Glub... No grazie... - farfugliò Alessandro. Si vergognava, aveva paura; però possedeva una cinquantina di paia di occhiali musicali. Il concerto fu un successo. Alessandro venne invitato a suonare alla radio, alla televisione, la sua fotografia era sul giornale. Ma ora possedeva quasi trecento paia di occhiali. (Gli succedeva d'altronde di comprare dei pezzi di musica che il maestro non gli aveva chiesto: li suonava a casa, per suo piacere personale.) - lh-ih-ih ! Cominci ad amare la musica! - ridacchiava il vecchio cinese, sfregandosi le mani. Alessandro non rispondeva. Di nascosto, aveva cercato di leggere dei pezzi di musica senza occhiali. Un disastro! Le note si confondevano come prima. Do rol ma fi sa lo si da! Saltabeccavano sugli spartiti come migliaia di pulci! Si nascondevano dietro le stanghette delle battute come tante pecore quando saltano le staccionate! Erano bianche, nere, di tanti colori! E c'erano pause dappertutto, ma le pause più angosciose erano quelle di Alessandro! - È un tormentooooo! - piagnucolava. Aveva una gran voglia di essere smascherato! -4- Un giorno che era a scuola, successe il disastro. La sua mamma, nel fare le grandi pulizie, scoprì la collezione di occhiali. Li prese per degli stupidi gadget e buttò ogni cosa nella spazzatura! Al suo ritorno, Alessandro non trovò più niente. Si mise a piangere, a gridare, a pestare i piedi. - È un tormentoeeee ! - urlava. Alessandro corse dal venditore di occhiali. Ma il vecchio cinese gli spiegò, sfregandosi le mani, che non possedeva duplicati dei famosi occhiali musicali. Poverino! Come confessare al maestro di musica, ai genitori, ai compagni, agli ammiratori e alle ammiratrici di essere un imbroglione! Tornò a casa e si mise a letto per farsi credere malato. Pensa e ripensa Di colpo balzò giù dal letto e tornò dal venditore di occhiali: -Voglio imparare i vecchi pezzi! - gli disse. - Può lasciarmi esercitare qui da lei, in segreto? Il cinese si sfregò le mani con un sorriso largo così, perché era proprio quello che aveva sperato. -5- Per settimane, per mesi, a mezzogiorno e alla sera, Alessandro prese la strada del piccolo negozio invece di andare a giocare con gli amici. E un po' alla volta imparò il solfeggio. Do re mi fa sol la si do. Facile. Imparò la chiave di sol, la chiave di fa, la chiave di do e tutto il resto del mazzo di chiavi. Un giorno, suonando i vecchi pezzi, riuscì a far cantare il violino. Allora, la pigrizia (o l'abitudine) lo riprese: - Per il prossimo pezzo mi comprerò un paio di occhiali. Il venditore glieli procurò sfregandosi le mani con aria sorniona. Alessandro inforcò gli occhiali e suonò il pezzo senza errori. Era contento. Ma il vecchio scoppiò a ridere riprendendosi i famosi occhiali, ih-ih-ih. Passò le dita nei fori: erano occhiali senza lenti! - Ma allora...? Che significa tutto questo? - Significa - ridacchiò il venditore - che ora conosci la musica e non hai più bisogno di occhiali! Alessandro aggrottò le sopracciglia, «È ancora un tormento» pensò. Ma sollevò l'archetto e suonò di nuovo il pezzo senza occhiali. Quando ebbe terminato, senza una sola nota falsa, restò un momento in silenzio con l'archetto in aria. Era commosso. (Tratto e adattato da: V. Rivais, Calma e sangue freddo!, Trieste, EMME EDIZIONI, 1993)
A13. Alla fine della parte di testo nel riquadro, Alessandro chiede: “Ma allora …? Che significa tutto questo?”. Quali informazioni di questa parte ti servono per capire a che cosa si riferisce “tutto questo”? Per ciascuno dei seguenti fatti indica se serve per capire oppure no. c) Il vecchio ... si riprese i famosi occhiali - serve per capire/ non serve
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binaria
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Gli occhiali musicali -1- Alessandro non amava il solfeggio, e addirittura confondeva le note: do re mi sai fo li so da. Che pasticci! Il suo violino strideva: criiiiiiiiiii-ing! - È un tormento! - diceva Alessandro. - Faresti meglio a comprarti un paio di occhiali! - sogghignava il maestro di musica. E così Alessandro si comprò gli occhiali. Il venditore di occhiali musicali era un vecchio cinese curvo e grinzoso; non faceva che ridere con aria beffarda, stropicciandosi le mani: - lh-ih-ih! So bene che cosa ti occorre! Eccoti degli occhiali per leggere il tuo metodo di solfeggio! -2- Erano occhiali prodigiosi. Più nessun bisogno di studiare. Alessandro inforcava gli occhiali e suonava tutto lo spartito senza sforzo. - Che progressi! - esclamò il maestro di musica. - Mai visto niente di simile! Alessandro tornò a casa tutto compiaciuto e ripose il violino in un angolo. Non valeva più la pena di affaticarsi. Ma il mercoledì seguente, che disastro! Aperto il «Metodo di violino», Alessandro inforcò gli occhiali, sollevò l'archetto, e... non riusciva a leggere l'esercizio! - Che aspetti per cominciare? - chiese il maestro, impaziente. - Eeeh ....lo ... Glub ...... Non so ..... - farfugliò penosamente Alessandro. Ripose il violino nell'astuccio, richiuse il «Metodo»; e allora capì che cos'era successo! Aveva comprato degli occhiali per il metodo numero uno, e invece era il numero due quello che avrebbe dovuto decifrare: si era sbagliato! E allora? - È vero - disse il vecchio venditore di occhiali sfregandosi le mani. - Per ogni singolo metodo esistono occhiali particolari. Bisogna cambiare occhiali ogni volta che cambi metodo! - È un tormento! - gemeva Alessandro. Comprò un secondo paio di occhiali. -3- - Sono contento di te, - dichiarò il maestro di musica - potresti studiarmi questo pezzo di Bach per la settimana prossima? Era una partitura difficile. Corse dal vecchio cinese, che lo rassicurò. Ma sì, vendeva anche gli occhiali per suonare quel pezzo di Bach. Alessandro comprò gli occhiali. E nelle settimane che seguirono, comprò altri occhiali per suonare pezzi di Mozart, Beethoven e perfino Esposito-Brambilla. Dicevano che era dotato, che leggeva a meraviglia i pezzi più arzigogolati. Un bel giorno il maestro di musica annunciò: - Daremo un concerto. - Eeeh.... lo..... Glub... No grazie... - farfugliò Alessandro. Si vergognava, aveva paura; però possedeva una cinquantina di paia di occhiali musicali. Il concerto fu un successo. Alessandro venne invitato a suonare alla radio, alla televisione, la sua fotografia era sul giornale. Ma ora possedeva quasi trecento paia di occhiali. (Gli succedeva d'altronde di comprare dei pezzi di musica che il maestro non gli aveva chiesto: li suonava a casa, per suo piacere personale.) - lh-ih-ih ! Cominci ad amare la musica! - ridacchiava il vecchio cinese, sfregandosi le mani. Alessandro non rispondeva. Di nascosto, aveva cercato di leggere dei pezzi di musica senza occhiali. Un disastro! Le note si confondevano come prima. Do rol ma fi sa lo si da! Saltabeccavano sugli spartiti come migliaia di pulci! Si nascondevano dietro le stanghette delle battute come tante pecore quando saltano le staccionate! Erano bianche, nere, di tanti colori! E c'erano pause dappertutto, ma le pause più angosciose erano quelle di Alessandro! - È un tormentooooo! - piagnucolava. Aveva una gran voglia di essere smascherato! -4- Un giorno che era a scuola, successe il disastro. La sua mamma, nel fare le grandi pulizie, scoprì la collezione di occhiali. Li prese per degli stupidi gadget e buttò ogni cosa nella spazzatura! Al suo ritorno, Alessandro non trovò più niente. Si mise a piangere, a gridare, a pestare i piedi. - È un tormentoeeee ! - urlava. Alessandro corse dal venditore di occhiali. Ma il vecchio cinese gli spiegò, sfregandosi le mani, che non possedeva duplicati dei famosi occhiali musicali. Poverino! Come confessare al maestro di musica, ai genitori, ai compagni, agli ammiratori e alle ammiratrici di essere un imbroglione! Tornò a casa e si mise a letto per farsi credere malato. Pensa e ripensa Di colpo balzò giù dal letto e tornò dal venditore di occhiali: -Voglio imparare i vecchi pezzi! - gli disse. - Può lasciarmi esercitare qui da lei, in segreto? Il cinese si sfregò le mani con un sorriso largo così, perché era proprio quello che aveva sperato. -5- Per settimane, per mesi, a mezzogiorno e alla sera, Alessandro prese la strada del piccolo negozio invece di andare a giocare con gli amici. E un po' alla volta imparò il solfeggio. Do re mi fa sol la si do. Facile. Imparò la chiave di sol, la chiave di fa, la chiave di do e tutto il resto del mazzo di chiavi. Un giorno, suonando i vecchi pezzi, riuscì a far cantare il violino. Allora, la pigrizia (o l'abitudine) lo riprese: - Per il prossimo pezzo mi comprerò un paio di occhiali. Il venditore glieli procurò sfregandosi le mani con aria sorniona. Alessandro inforcò gli occhiali e suonò il pezzo senza errori. Era contento. Ma il vecchio scoppiò a ridere riprendendosi i famosi occhiali, ih-ih-ih. Passò le dita nei fori: erano occhiali senza lenti! - Ma allora...? Che significa tutto questo? - Significa - ridacchiò il venditore - che ora conosci la musica e non hai più bisogno di occhiali! Alessandro aggrottò le sopracciglia, «È ancora un tormento» pensò. Ma sollevò l'archetto e suonò di nuovo il pezzo senza occhiali. Quando ebbe terminato, senza una sola nota falsa, restò un momento in silenzio con l'archetto in aria. Era commosso. (Tratto e adattato da: V. Rivais, Calma e sangue freddo!, Trieste, EMME EDIZIONI, 1993)
A13. Alla fine della parte di testo nel riquadro, Alessandro chiede: “Ma allora …? Che significa tutto questo?”. Quali informazioni di questa parte ti servono per capire a che cosa si riferisce “tutto questo”? Per ciascuno dei seguenti fatti indica se serve per capire oppure no. d) Il vecchio passò le dita nei fiori: erano occhiali senza lenti - serve per capire/ non serve
serve per capire
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2018_05_SNV_A
binaria
serve per capire
non serve per capire
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Gli occhiali musicali -1- Alessandro non amava il solfeggio, e addirittura confondeva le note: do re mi sai fo li so da. Che pasticci! Il suo violino strideva: criiiiiiiiiii-ing! - È un tormento! - diceva Alessandro. - Faresti meglio a comprarti un paio di occhiali! - sogghignava il maestro di musica. E così Alessandro si comprò gli occhiali. Il venditore di occhiali musicali era un vecchio cinese curvo e grinzoso; non faceva che ridere con aria beffarda, stropicciandosi le mani: - lh-ih-ih! So bene che cosa ti occorre! Eccoti degli occhiali per leggere il tuo metodo di solfeggio! -2- Erano occhiali prodigiosi. Più nessun bisogno di studiare. Alessandro inforcava gli occhiali e suonava tutto lo spartito senza sforzo. - Che progressi! - esclamò il maestro di musica. - Mai visto niente di simile! Alessandro tornò a casa tutto compiaciuto e ripose il violino in un angolo. Non valeva più la pena di affaticarsi. Ma il mercoledì seguente, che disastro! Aperto il «Metodo di violino», Alessandro inforcò gli occhiali, sollevò l'archetto, e... non riusciva a leggere l'esercizio! - Che aspetti per cominciare? - chiese il maestro, impaziente. - Eeeh ....lo ... Glub ...... Non so ..... - farfugliò penosamente Alessandro. Ripose il violino nell'astuccio, richiuse il «Metodo»; e allora capì che cos'era successo! Aveva comprato degli occhiali per il metodo numero uno, e invece era il numero due quello che avrebbe dovuto decifrare: si era sbagliato! E allora? - È vero - disse il vecchio venditore di occhiali sfregandosi le mani. - Per ogni singolo metodo esistono occhiali particolari. Bisogna cambiare occhiali ogni volta che cambi metodo! - È un tormento! - gemeva Alessandro. Comprò un secondo paio di occhiali. -3- - Sono contento di te, - dichiarò il maestro di musica - potresti studiarmi questo pezzo di Bach per la settimana prossima? Era una partitura difficile. Corse dal vecchio cinese, che lo rassicurò. Ma sì, vendeva anche gli occhiali per suonare quel pezzo di Bach. Alessandro comprò gli occhiali. E nelle settimane che seguirono, comprò altri occhiali per suonare pezzi di Mozart, Beethoven e perfino Esposito-Brambilla. Dicevano che era dotato, che leggeva a meraviglia i pezzi più arzigogolati. Un bel giorno il maestro di musica annunciò: - Daremo un concerto. - Eeeh.... lo..... Glub... No grazie... - farfugliò Alessandro. Si vergognava, aveva paura; però possedeva una cinquantina di paia di occhiali musicali. Il concerto fu un successo. Alessandro venne invitato a suonare alla radio, alla televisione, la sua fotografia era sul giornale. Ma ora possedeva quasi trecento paia di occhiali. (Gli succedeva d'altronde di comprare dei pezzi di musica che il maestro non gli aveva chiesto: li suonava a casa, per suo piacere personale.) - lh-ih-ih ! Cominci ad amare la musica! - ridacchiava il vecchio cinese, sfregandosi le mani. Alessandro non rispondeva. Di nascosto, aveva cercato di leggere dei pezzi di musica senza occhiali. Un disastro! Le note si confondevano come prima. Do rol ma fi sa lo si da! Saltabeccavano sugli spartiti come migliaia di pulci! Si nascondevano dietro le stanghette delle battute come tante pecore quando saltano le staccionate! Erano bianche, nere, di tanti colori! E c'erano pause dappertutto, ma le pause più angosciose erano quelle di Alessandro! - È un tormentooooo! - piagnucolava. Aveva una gran voglia di essere smascherato! -4- Un giorno che era a scuola, successe il disastro. La sua mamma, nel fare le grandi pulizie, scoprì la collezione di occhiali. Li prese per degli stupidi gadget e buttò ogni cosa nella spazzatura! Al suo ritorno, Alessandro non trovò più niente. Si mise a piangere, a gridare, a pestare i piedi. - È un tormentoeeee ! - urlava. Alessandro corse dal venditore di occhiali. Ma il vecchio cinese gli spiegò, sfregandosi le mani, che non possedeva duplicati dei famosi occhiali musicali. Poverino! Come confessare al maestro di musica, ai genitori, ai compagni, agli ammiratori e alle ammiratrici di essere un imbroglione! Tornò a casa e si mise a letto per farsi credere malato. Pensa e ripensa Di colpo balzò giù dal letto e tornò dal venditore di occhiali: -Voglio imparare i vecchi pezzi! - gli disse. - Può lasciarmi esercitare qui da lei, in segreto? Il cinese si sfregò le mani con un sorriso largo così, perché era proprio quello che aveva sperato. -5- Per settimane, per mesi, a mezzogiorno e alla sera, Alessandro prese la strada del piccolo negozio invece di andare a giocare con gli amici. E un po' alla volta imparò il solfeggio. Do re mi fa sol la si do. Facile. Imparò la chiave di sol, la chiave di fa, la chiave di do e tutto il resto del mazzo di chiavi. Un giorno, suonando i vecchi pezzi, riuscì a far cantare il violino. Allora, la pigrizia (o l'abitudine) lo riprese: - Per il prossimo pezzo mi comprerò un paio di occhiali. Il venditore glieli procurò sfregandosi le mani con aria sorniona. Alessandro inforcò gli occhiali e suonò il pezzo senza errori. Era contento. Ma il vecchio scoppiò a ridere riprendendosi i famosi occhiali, ih-ih-ih. Passò le dita nei fori: erano occhiali senza lenti! - Ma allora...? Che significa tutto questo? - Significa - ridacchiò il venditore - che ora conosci la musica e non hai più bisogno di occhiali! Alessandro aggrottò le sopracciglia, «È ancora un tormento» pensò. Ma sollevò l'archetto e suonò di nuovo il pezzo senza occhiali. Quando ebbe terminato, senza una sola nota falsa, restò un momento in silenzio con l'archetto in aria. Era commosso. (Tratto e adattato da: V. Rivais, Calma e sangue freddo!, Trieste, EMME EDIZIONI, 1993)
A16. In questo testo si racconta come cambiano nel tempo il rapporto del protagonista con la musica e la sua capacità di suonare. A questo cambiamento hanno contribuito vari fattori. Indica quali tra quelli elencati sotto. Per ognuno dei seguenti fattori indica se ha contribuito oppure no: a) La fiducia negli occhiali musicali -Ha contribuito/ non ha contribuito
ha contribuito
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2018_05_SNV_A
binaria
ha contribuito
non ha contribuito
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Gli occhiali musicali -1- Alessandro non amava il solfeggio, e addirittura confondeva le note: do re mi sai fo li so da. Che pasticci! Il suo violino strideva: criiiiiiiiiii-ing! - È un tormento! - diceva Alessandro. - Faresti meglio a comprarti un paio di occhiali! - sogghignava il maestro di musica. E così Alessandro si comprò gli occhiali. Il venditore di occhiali musicali era un vecchio cinese curvo e grinzoso; non faceva che ridere con aria beffarda, stropicciandosi le mani: - lh-ih-ih! So bene che cosa ti occorre! Eccoti degli occhiali per leggere il tuo metodo di solfeggio! -2- Erano occhiali prodigiosi. Più nessun bisogno di studiare. Alessandro inforcava gli occhiali e suonava tutto lo spartito senza sforzo. - Che progressi! - esclamò il maestro di musica. - Mai visto niente di simile! Alessandro tornò a casa tutto compiaciuto e ripose il violino in un angolo. Non valeva più la pena di affaticarsi. Ma il mercoledì seguente, che disastro! Aperto il «Metodo di violino», Alessandro inforcò gli occhiali, sollevò l'archetto, e... non riusciva a leggere l'esercizio! - Che aspetti per cominciare? - chiese il maestro, impaziente. - Eeeh ....lo ... Glub ...... Non so ..... - farfugliò penosamente Alessandro. Ripose il violino nell'astuccio, richiuse il «Metodo»; e allora capì che cos'era successo! Aveva comprato degli occhiali per il metodo numero uno, e invece era il numero due quello che avrebbe dovuto decifrare: si era sbagliato! E allora? - È vero - disse il vecchio venditore di occhiali sfregandosi le mani. - Per ogni singolo metodo esistono occhiali particolari. Bisogna cambiare occhiali ogni volta che cambi metodo! - È un tormento! - gemeva Alessandro. Comprò un secondo paio di occhiali. -3- - Sono contento di te, - dichiarò il maestro di musica - potresti studiarmi questo pezzo di Bach per la settimana prossima? Era una partitura difficile. Corse dal vecchio cinese, che lo rassicurò. Ma sì, vendeva anche gli occhiali per suonare quel pezzo di Bach. Alessandro comprò gli occhiali. E nelle settimane che seguirono, comprò altri occhiali per suonare pezzi di Mozart, Beethoven e perfino Esposito-Brambilla. Dicevano che era dotato, che leggeva a meraviglia i pezzi più arzigogolati. Un bel giorno il maestro di musica annunciò: - Daremo un concerto. - Eeeh.... lo..... Glub... No grazie... - farfugliò Alessandro. Si vergognava, aveva paura; però possedeva una cinquantina di paia di occhiali musicali. Il concerto fu un successo. Alessandro venne invitato a suonare alla radio, alla televisione, la sua fotografia era sul giornale. Ma ora possedeva quasi trecento paia di occhiali. (Gli succedeva d'altronde di comprare dei pezzi di musica che il maestro non gli aveva chiesto: li suonava a casa, per suo piacere personale.) - lh-ih-ih ! Cominci ad amare la musica! - ridacchiava il vecchio cinese, sfregandosi le mani. Alessandro non rispondeva. Di nascosto, aveva cercato di leggere dei pezzi di musica senza occhiali. Un disastro! Le note si confondevano come prima. Do rol ma fi sa lo si da! Saltabeccavano sugli spartiti come migliaia di pulci! Si nascondevano dietro le stanghette delle battute come tante pecore quando saltano le staccionate! Erano bianche, nere, di tanti colori! E c'erano pause dappertutto, ma le pause più angosciose erano quelle di Alessandro! - È un tormentooooo! - piagnucolava. Aveva una gran voglia di essere smascherato! -4- Un giorno che era a scuola, successe il disastro. La sua mamma, nel fare le grandi pulizie, scoprì la collezione di occhiali. Li prese per degli stupidi gadget e buttò ogni cosa nella spazzatura! Al suo ritorno, Alessandro non trovò più niente. Si mise a piangere, a gridare, a pestare i piedi. - È un tormentoeeee ! - urlava. Alessandro corse dal venditore di occhiali. Ma il vecchio cinese gli spiegò, sfregandosi le mani, che non possedeva duplicati dei famosi occhiali musicali. Poverino! Come confessare al maestro di musica, ai genitori, ai compagni, agli ammiratori e alle ammiratrici di essere un imbroglione! Tornò a casa e si mise a letto per farsi credere malato. Pensa e ripensa Di colpo balzò giù dal letto e tornò dal venditore di occhiali: -Voglio imparare i vecchi pezzi! - gli disse. - Può lasciarmi esercitare qui da lei, in segreto? Il cinese si sfregò le mani con un sorriso largo così, perché era proprio quello che aveva sperato. -5- Per settimane, per mesi, a mezzogiorno e alla sera, Alessandro prese la strada del piccolo negozio invece di andare a giocare con gli amici. E un po' alla volta imparò il solfeggio. Do re mi fa sol la si do. Facile. Imparò la chiave di sol, la chiave di fa, la chiave di do e tutto il resto del mazzo di chiavi. Un giorno, suonando i vecchi pezzi, riuscì a far cantare il violino. Allora, la pigrizia (o l'abitudine) lo riprese: - Per il prossimo pezzo mi comprerò un paio di occhiali. Il venditore glieli procurò sfregandosi le mani con aria sorniona. Alessandro inforcò gli occhiali e suonò il pezzo senza errori. Era contento. Ma il vecchio scoppiò a ridere riprendendosi i famosi occhiali, ih-ih-ih. Passò le dita nei fori: erano occhiali senza lenti! - Ma allora...? Che significa tutto questo? - Significa - ridacchiò il venditore - che ora conosci la musica e non hai più bisogno di occhiali! Alessandro aggrottò le sopracciglia, «È ancora un tormento» pensò. Ma sollevò l'archetto e suonò di nuovo il pezzo senza occhiali. Quando ebbe terminato, senza una sola nota falsa, restò un momento in silenzio con l'archetto in aria. Era commosso. (Tratto e adattato da: V. Rivais, Calma e sangue freddo!, Trieste, EMME EDIZIONI, 1993)
A16. In questo testo si racconta come cambiano nel tempo il rapporto del protagonista con la musica e la sua capacità di suonare. A questo cambiamento hanno contribuito vari fattori. Indica quali tra quelli elencati sotto. Per ognuno dei seguenti fattori indica se ha contribuito oppure no: b) Il mettersi a letto e fingersi ammalato -Ha contribuito/ non ha contribuito
non ha contribuito
['item_297_0.png']
2018_05_SNV_A
binaria
ha contribuito
non ha contribuito
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Gli occhiali musicali -1- Alessandro non amava il solfeggio, e addirittura confondeva le note: do re mi sai fo li so da. Che pasticci! Il suo violino strideva: criiiiiiiiiii-ing! - È un tormento! - diceva Alessandro. - Faresti meglio a comprarti un paio di occhiali! - sogghignava il maestro di musica. E così Alessandro si comprò gli occhiali. Il venditore di occhiali musicali era un vecchio cinese curvo e grinzoso; non faceva che ridere con aria beffarda, stropicciandosi le mani: - lh-ih-ih! So bene che cosa ti occorre! Eccoti degli occhiali per leggere il tuo metodo di solfeggio! -2- Erano occhiali prodigiosi. Più nessun bisogno di studiare. Alessandro inforcava gli occhiali e suonava tutto lo spartito senza sforzo. - Che progressi! - esclamò il maestro di musica. - Mai visto niente di simile! Alessandro tornò a casa tutto compiaciuto e ripose il violino in un angolo. Non valeva più la pena di affaticarsi. Ma il mercoledì seguente, che disastro! Aperto il «Metodo di violino», Alessandro inforcò gli occhiali, sollevò l'archetto, e... non riusciva a leggere l'esercizio! - Che aspetti per cominciare? - chiese il maestro, impaziente. - Eeeh ....lo ... Glub ...... Non so ..... - farfugliò penosamente Alessandro. Ripose il violino nell'astuccio, richiuse il «Metodo»; e allora capì che cos'era successo! Aveva comprato degli occhiali per il metodo numero uno, e invece era il numero due quello che avrebbe dovuto decifrare: si era sbagliato! E allora? - È vero - disse il vecchio venditore di occhiali sfregandosi le mani. - Per ogni singolo metodo esistono occhiali particolari. Bisogna cambiare occhiali ogni volta che cambi metodo! - È un tormento! - gemeva Alessandro. Comprò un secondo paio di occhiali. -3- - Sono contento di te, - dichiarò il maestro di musica - potresti studiarmi questo pezzo di Bach per la settimana prossima? Era una partitura difficile. Corse dal vecchio cinese, che lo rassicurò. Ma sì, vendeva anche gli occhiali per suonare quel pezzo di Bach. Alessandro comprò gli occhiali. E nelle settimane che seguirono, comprò altri occhiali per suonare pezzi di Mozart, Beethoven e perfino Esposito-Brambilla. Dicevano che era dotato, che leggeva a meraviglia i pezzi più arzigogolati. Un bel giorno il maestro di musica annunciò: - Daremo un concerto. - Eeeh.... lo..... Glub... No grazie... - farfugliò Alessandro. Si vergognava, aveva paura; però possedeva una cinquantina di paia di occhiali musicali. Il concerto fu un successo. Alessandro venne invitato a suonare alla radio, alla televisione, la sua fotografia era sul giornale. Ma ora possedeva quasi trecento paia di occhiali. (Gli succedeva d'altronde di comprare dei pezzi di musica che il maestro non gli aveva chiesto: li suonava a casa, per suo piacere personale.) - lh-ih-ih ! Cominci ad amare la musica! - ridacchiava il vecchio cinese, sfregandosi le mani. Alessandro non rispondeva. Di nascosto, aveva cercato di leggere dei pezzi di musica senza occhiali. Un disastro! Le note si confondevano come prima. Do rol ma fi sa lo si da! Saltabeccavano sugli spartiti come migliaia di pulci! Si nascondevano dietro le stanghette delle battute come tante pecore quando saltano le staccionate! Erano bianche, nere, di tanti colori! E c'erano pause dappertutto, ma le pause più angosciose erano quelle di Alessandro! - È un tormentooooo! - piagnucolava. Aveva una gran voglia di essere smascherato! -4- Un giorno che era a scuola, successe il disastro. La sua mamma, nel fare le grandi pulizie, scoprì la collezione di occhiali. Li prese per degli stupidi gadget e buttò ogni cosa nella spazzatura! Al suo ritorno, Alessandro non trovò più niente. Si mise a piangere, a gridare, a pestare i piedi. - È un tormentoeeee ! - urlava. Alessandro corse dal venditore di occhiali. Ma il vecchio cinese gli spiegò, sfregandosi le mani, che non possedeva duplicati dei famosi occhiali musicali. Poverino! Come confessare al maestro di musica, ai genitori, ai compagni, agli ammiratori e alle ammiratrici di essere un imbroglione! Tornò a casa e si mise a letto per farsi credere malato. Pensa e ripensa Di colpo balzò giù dal letto e tornò dal venditore di occhiali: -Voglio imparare i vecchi pezzi! - gli disse. - Può lasciarmi esercitare qui da lei, in segreto? Il cinese si sfregò le mani con un sorriso largo così, perché era proprio quello che aveva sperato. -5- Per settimane, per mesi, a mezzogiorno e alla sera, Alessandro prese la strada del piccolo negozio invece di andare a giocare con gli amici. E un po' alla volta imparò il solfeggio. Do re mi fa sol la si do. Facile. Imparò la chiave di sol, la chiave di fa, la chiave di do e tutto il resto del mazzo di chiavi. Un giorno, suonando i vecchi pezzi, riuscì a far cantare il violino. Allora, la pigrizia (o l'abitudine) lo riprese: - Per il prossimo pezzo mi comprerò un paio di occhiali. Il venditore glieli procurò sfregandosi le mani con aria sorniona. Alessandro inforcò gli occhiali e suonò il pezzo senza errori. Era contento. Ma il vecchio scoppiò a ridere riprendendosi i famosi occhiali, ih-ih-ih. Passò le dita nei fori: erano occhiali senza lenti! - Ma allora...? Che significa tutto questo? - Significa - ridacchiò il venditore - che ora conosci la musica e non hai più bisogno di occhiali! Alessandro aggrottò le sopracciglia, «È ancora un tormento» pensò. Ma sollevò l'archetto e suonò di nuovo il pezzo senza occhiali. Quando ebbe terminato, senza una sola nota falsa, restò un momento in silenzio con l'archetto in aria. Era commosso. (Tratto e adattato da: V. Rivais, Calma e sangue freddo!, Trieste, EMME EDIZIONI, 1993)
A16. In questo testo si racconta come cambiano nel tempo il rapporto del protagonista con la musica e la sua capacità di suonare. A questo cambiamento hanno contribuito vari fattori. Indica quali tra quelli elencati sotto. Per ognuno dei seguenti fattori indica se ha contribuito oppure no: c) L'esercitarsi ogni giorno di nascosto con il violino - Ha contribuito/ non ha contribuito
ha contribuito
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2018_05_SNV_A
binaria
ha contribuito
non ha contribuito
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Gli occhiali musicali -1- Alessandro non amava il solfeggio, e addirittura confondeva le note: do re mi sai fo li so da. Che pasticci! Il suo violino strideva: criiiiiiiiiii-ing! - È un tormento! - diceva Alessandro. - Faresti meglio a comprarti un paio di occhiali! - sogghignava il maestro di musica. E così Alessandro si comprò gli occhiali. Il venditore di occhiali musicali era un vecchio cinese curvo e grinzoso; non faceva che ridere con aria beffarda, stropicciandosi le mani: - lh-ih-ih! So bene che cosa ti occorre! Eccoti degli occhiali per leggere il tuo metodo di solfeggio! -2- Erano occhiali prodigiosi. Più nessun bisogno di studiare. Alessandro inforcava gli occhiali e suonava tutto lo spartito senza sforzo. - Che progressi! - esclamò il maestro di musica. - Mai visto niente di simile! Alessandro tornò a casa tutto compiaciuto e ripose il violino in un angolo. Non valeva più la pena di affaticarsi. Ma il mercoledì seguente, che disastro! Aperto il «Metodo di violino», Alessandro inforcò gli occhiali, sollevò l'archetto, e... non riusciva a leggere l'esercizio! - Che aspetti per cominciare? - chiese il maestro, impaziente. - Eeeh ....lo ... Glub ...... Non so ..... - farfugliò penosamente Alessandro. Ripose il violino nell'astuccio, richiuse il «Metodo»; e allora capì che cos'era successo! Aveva comprato degli occhiali per il metodo numero uno, e invece era il numero due quello che avrebbe dovuto decifrare: si era sbagliato! E allora? - È vero - disse il vecchio venditore di occhiali sfregandosi le mani. - Per ogni singolo metodo esistono occhiali particolari. Bisogna cambiare occhiali ogni volta che cambi metodo! - È un tormento! - gemeva Alessandro. Comprò un secondo paio di occhiali. -3- - Sono contento di te, - dichiarò il maestro di musica - potresti studiarmi questo pezzo di Bach per la settimana prossima? Era una partitura difficile. Corse dal vecchio cinese, che lo rassicurò. Ma sì, vendeva anche gli occhiali per suonare quel pezzo di Bach. Alessandro comprò gli occhiali. E nelle settimane che seguirono, comprò altri occhiali per suonare pezzi di Mozart, Beethoven e perfino Esposito-Brambilla. Dicevano che era dotato, che leggeva a meraviglia i pezzi più arzigogolati. Un bel giorno il maestro di musica annunciò: - Daremo un concerto. - Eeeh.... lo..... Glub... No grazie... - farfugliò Alessandro. Si vergognava, aveva paura; però possedeva una cinquantina di paia di occhiali musicali. Il concerto fu un successo. Alessandro venne invitato a suonare alla radio, alla televisione, la sua fotografia era sul giornale. Ma ora possedeva quasi trecento paia di occhiali. (Gli succedeva d'altronde di comprare dei pezzi di musica che il maestro non gli aveva chiesto: li suonava a casa, per suo piacere personale.) - lh-ih-ih ! Cominci ad amare la musica! - ridacchiava il vecchio cinese, sfregandosi le mani. Alessandro non rispondeva. Di nascosto, aveva cercato di leggere dei pezzi di musica senza occhiali. Un disastro! Le note si confondevano come prima. Do rol ma fi sa lo si da! Saltabeccavano sugli spartiti come migliaia di pulci! Si nascondevano dietro le stanghette delle battute come tante pecore quando saltano le staccionate! Erano bianche, nere, di tanti colori! E c'erano pause dappertutto, ma le pause più angosciose erano quelle di Alessandro! - È un tormentooooo! - piagnucolava. Aveva una gran voglia di essere smascherato! -4- Un giorno che era a scuola, successe il disastro. La sua mamma, nel fare le grandi pulizie, scoprì la collezione di occhiali. Li prese per degli stupidi gadget e buttò ogni cosa nella spazzatura! Al suo ritorno, Alessandro non trovò più niente. Si mise a piangere, a gridare, a pestare i piedi. - È un tormentoeeee ! - urlava. Alessandro corse dal venditore di occhiali. Ma il vecchio cinese gli spiegò, sfregandosi le mani, che non possedeva duplicati dei famosi occhiali musicali. Poverino! Come confessare al maestro di musica, ai genitori, ai compagni, agli ammiratori e alle ammiratrici di essere un imbroglione! Tornò a casa e si mise a letto per farsi credere malato. Pensa e ripensa Di colpo balzò giù dal letto e tornò dal venditore di occhiali: -Voglio imparare i vecchi pezzi! - gli disse. - Può lasciarmi esercitare qui da lei, in segreto? Il cinese si sfregò le mani con un sorriso largo così, perché era proprio quello che aveva sperato. -5- Per settimane, per mesi, a mezzogiorno e alla sera, Alessandro prese la strada del piccolo negozio invece di andare a giocare con gli amici. E un po' alla volta imparò il solfeggio. Do re mi fa sol la si do. Facile. Imparò la chiave di sol, la chiave di fa, la chiave di do e tutto il resto del mazzo di chiavi. Un giorno, suonando i vecchi pezzi, riuscì a far cantare il violino. Allora, la pigrizia (o l'abitudine) lo riprese: - Per il prossimo pezzo mi comprerò un paio di occhiali. Il venditore glieli procurò sfregandosi le mani con aria sorniona. Alessandro inforcò gli occhiali e suonò il pezzo senza errori. Era contento. Ma il vecchio scoppiò a ridere riprendendosi i famosi occhiali, ih-ih-ih. Passò le dita nei fori: erano occhiali senza lenti! - Ma allora...? Che significa tutto questo? - Significa - ridacchiò il venditore - che ora conosci la musica e non hai più bisogno di occhiali! Alessandro aggrottò le sopracciglia, «È ancora un tormento» pensò. Ma sollevò l'archetto e suonò di nuovo il pezzo senza occhiali. Quando ebbe terminato, senza una sola nota falsa, restò un momento in silenzio con l'archetto in aria. Era commosso. (Tratto e adattato da: V. Rivais, Calma e sangue freddo!, Trieste, EMME EDIZIONI, 1993)
A16. In questo testo si racconta come cambiano nel tempo il rapporto del protagonista con la musica e la sua capacità di suonare. A questo cambiamento hanno contribuito vari fattori. Indica quali tra quelli elencati sotto. Per ognuno dei seguenti fattori indica se ha contribuito oppure no: d) Il continuare a esclamare "è un tormento" - Ha contribuito/ non ha contribuito
non ha contribuito
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2018_05_SNV_A
binaria
ha contribuito
non ha contribuito
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Gli occhiali musicali -1- Alessandro non amava il solfeggio, e addirittura confondeva le note: do re mi sai fo li so da. Che pasticci! Il suo violino strideva: criiiiiiiiiii-ing! - È un tormento! - diceva Alessandro. - Faresti meglio a comprarti un paio di occhiali! - sogghignava il maestro di musica. E così Alessandro si comprò gli occhiali. Il venditore di occhiali musicali era un vecchio cinese curvo e grinzoso; non faceva che ridere con aria beffarda, stropicciandosi le mani: - lh-ih-ih! So bene che cosa ti occorre! Eccoti degli occhiali per leggere il tuo metodo di solfeggio! -2- Erano occhiali prodigiosi. Più nessun bisogno di studiare. Alessandro inforcava gli occhiali e suonava tutto lo spartito senza sforzo. - Che progressi! - esclamò il maestro di musica. - Mai visto niente di simile! Alessandro tornò a casa tutto compiaciuto e ripose il violino in un angolo. Non valeva più la pena di affaticarsi. Ma il mercoledì seguente, che disastro! Aperto il «Metodo di violino», Alessandro inforcò gli occhiali, sollevò l'archetto, e... non riusciva a leggere l'esercizio! - Che aspetti per cominciare? - chiese il maestro, impaziente. - Eeeh ....lo ... Glub ...... Non so ..... - farfugliò penosamente Alessandro. Ripose il violino nell'astuccio, richiuse il «Metodo»; e allora capì che cos'era successo! Aveva comprato degli occhiali per il metodo numero uno, e invece era il numero due quello che avrebbe dovuto decifrare: si era sbagliato! E allora? - È vero - disse il vecchio venditore di occhiali sfregandosi le mani. - Per ogni singolo metodo esistono occhiali particolari. Bisogna cambiare occhiali ogni volta che cambi metodo! - È un tormento! - gemeva Alessandro. Comprò un secondo paio di occhiali. -3- - Sono contento di te, - dichiarò il maestro di musica - potresti studiarmi questo pezzo di Bach per la settimana prossima? Era una partitura difficile. Corse dal vecchio cinese, che lo rassicurò. Ma sì, vendeva anche gli occhiali per suonare quel pezzo di Bach. Alessandro comprò gli occhiali. E nelle settimane che seguirono, comprò altri occhiali per suonare pezzi di Mozart, Beethoven e perfino Esposito-Brambilla. Dicevano che era dotato, che leggeva a meraviglia i pezzi più arzigogolati. Un bel giorno il maestro di musica annunciò: - Daremo un concerto. - Eeeh.... lo..... Glub... No grazie... - farfugliò Alessandro. Si vergognava, aveva paura; però possedeva una cinquantina di paia di occhiali musicali. Il concerto fu un successo. Alessandro venne invitato a suonare alla radio, alla televisione, la sua fotografia era sul giornale. Ma ora possedeva quasi trecento paia di occhiali. (Gli succedeva d'altronde di comprare dei pezzi di musica che il maestro non gli aveva chiesto: li suonava a casa, per suo piacere personale.) - lh-ih-ih ! Cominci ad amare la musica! - ridacchiava il vecchio cinese, sfregandosi le mani. Alessandro non rispondeva. Di nascosto, aveva cercato di leggere dei pezzi di musica senza occhiali. Un disastro! Le note si confondevano come prima. Do rol ma fi sa lo si da! Saltabeccavano sugli spartiti come migliaia di pulci! Si nascondevano dietro le stanghette delle battute come tante pecore quando saltano le staccionate! Erano bianche, nere, di tanti colori! E c'erano pause dappertutto, ma le pause più angosciose erano quelle di Alessandro! - È un tormentooooo! - piagnucolava. Aveva una gran voglia di essere smascherato! -4- Un giorno che era a scuola, successe il disastro. La sua mamma, nel fare le grandi pulizie, scoprì la collezione di occhiali. Li prese per degli stupidi gadget e buttò ogni cosa nella spazzatura! Al suo ritorno, Alessandro non trovò più niente. Si mise a piangere, a gridare, a pestare i piedi. - È un tormentoeeee ! - urlava. Alessandro corse dal venditore di occhiali. Ma il vecchio cinese gli spiegò, sfregandosi le mani, che non possedeva duplicati dei famosi occhiali musicali. Poverino! Come confessare al maestro di musica, ai genitori, ai compagni, agli ammiratori e alle ammiratrici di essere un imbroglione! Tornò a casa e si mise a letto per farsi credere malato. Pensa e ripensa Di colpo balzò giù dal letto e tornò dal venditore di occhiali: -Voglio imparare i vecchi pezzi! - gli disse. - Può lasciarmi esercitare qui da lei, in segreto? Il cinese si sfregò le mani con un sorriso largo così, perché era proprio quello che aveva sperato. -5- Per settimane, per mesi, a mezzogiorno e alla sera, Alessandro prese la strada del piccolo negozio invece di andare a giocare con gli amici. E un po' alla volta imparò il solfeggio. Do re mi fa sol la si do. Facile. Imparò la chiave di sol, la chiave di fa, la chiave di do e tutto il resto del mazzo di chiavi. Un giorno, suonando i vecchi pezzi, riuscì a far cantare il violino. Allora, la pigrizia (o l'abitudine) lo riprese: - Per il prossimo pezzo mi comprerò un paio di occhiali. Il venditore glieli procurò sfregandosi le mani con aria sorniona. Alessandro inforcò gli occhiali e suonò il pezzo senza errori. Era contento. Ma il vecchio scoppiò a ridere riprendendosi i famosi occhiali, ih-ih-ih. Passò le dita nei fori: erano occhiali senza lenti! - Ma allora...? Che significa tutto questo? - Significa - ridacchiò il venditore - che ora conosci la musica e non hai più bisogno di occhiali! Alessandro aggrottò le sopracciglia, «È ancora un tormento» pensò. Ma sollevò l'archetto e suonò di nuovo il pezzo senza occhiali. Quando ebbe terminato, senza una sola nota falsa, restò un momento in silenzio con l'archetto in aria. Era commosso. (Tratto e adattato da: V. Rivais, Calma e sangue freddo!, Trieste, EMME EDIZIONI, 1993)
A16. In questo testo si racconta come cambiano nel tempo il rapporto del protagonista con la musica e la sua capacità di suonare. A questo cambiamento hanno contribuito vari fattori. Indica quali tra quelli elencati sotto. Per ognuno dei seguenti fattori indica se ha contribuito oppure no: e) Il suonare pezzi sempre più impegnativi -Ha contribuito/ non ha contribuito
ha contribuito
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2018_05_SNV_A
binaria
ha contribuito
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Gli occhiali musicali -1- Alessandro non amava il solfeggio, e addirittura confondeva le note: do re mi sai fo li so da. Che pasticci! Il suo violino strideva: criiiiiiiiiii-ing! - È un tormento! - diceva Alessandro. - Faresti meglio a comprarti un paio di occhiali! - sogghignava il maestro di musica. E così Alessandro si comprò gli occhiali. Il venditore di occhiali musicali era un vecchio cinese curvo e grinzoso; non faceva che ridere con aria beffarda, stropicciandosi le mani: - lh-ih-ih! So bene che cosa ti occorre! Eccoti degli occhiali per leggere il tuo metodo di solfeggio! -2- Erano occhiali prodigiosi. Più nessun bisogno di studiare. Alessandro inforcava gli occhiali e suonava tutto lo spartito senza sforzo. - Che progressi! - esclamò il maestro di musica. - Mai visto niente di simile! Alessandro tornò a casa tutto compiaciuto e ripose il violino in un angolo. Non valeva più la pena di affaticarsi. Ma il mercoledì seguente, che disastro! Aperto il «Metodo di violino», Alessandro inforcò gli occhiali, sollevò l'archetto, e... non riusciva a leggere l'esercizio! - Che aspetti per cominciare? - chiese il maestro, impaziente. - Eeeh ....lo ... Glub ...... Non so ..... - farfugliò penosamente Alessandro. Ripose il violino nell'astuccio, richiuse il «Metodo»; e allora capì che cos'era successo! Aveva comprato degli occhiali per il metodo numero uno, e invece era il numero due quello che avrebbe dovuto decifrare: si era sbagliato! E allora? - È vero - disse il vecchio venditore di occhiali sfregandosi le mani. - Per ogni singolo metodo esistono occhiali particolari. Bisogna cambiare occhiali ogni volta che cambi metodo! - È un tormento! - gemeva Alessandro. Comprò un secondo paio di occhiali. -3- - Sono contento di te, - dichiarò il maestro di musica - potresti studiarmi questo pezzo di Bach per la settimana prossima? Era una partitura difficile. Corse dal vecchio cinese, che lo rassicurò. Ma sì, vendeva anche gli occhiali per suonare quel pezzo di Bach. Alessandro comprò gli occhiali. E nelle settimane che seguirono, comprò altri occhiali per suonare pezzi di Mozart, Beethoven e perfino Esposito-Brambilla. Dicevano che era dotato, che leggeva a meraviglia i pezzi più arzigogolati. Un bel giorno il maestro di musica annunciò: - Daremo un concerto. - Eeeh.... lo..... Glub... No grazie... - farfugliò Alessandro. Si vergognava, aveva paura; però possedeva una cinquantina di paia di occhiali musicali. Il concerto fu un successo. Alessandro venne invitato a suonare alla radio, alla televisione, la sua fotografia era sul giornale. Ma ora possedeva quasi trecento paia di occhiali. (Gli succedeva d'altronde di comprare dei pezzi di musica che il maestro non gli aveva chiesto: li suonava a casa, per suo piacere personale.) - lh-ih-ih ! Cominci ad amare la musica! - ridacchiava il vecchio cinese, sfregandosi le mani. Alessandro non rispondeva. Di nascosto, aveva cercato di leggere dei pezzi di musica senza occhiali. Un disastro! Le note si confondevano come prima. Do rol ma fi sa lo si da! Saltabeccavano sugli spartiti come migliaia di pulci! Si nascondevano dietro le stanghette delle battute come tante pecore quando saltano le staccionate! Erano bianche, nere, di tanti colori! E c'erano pause dappertutto, ma le pause più angosciose erano quelle di Alessandro! - È un tormentooooo! - piagnucolava. Aveva una gran voglia di essere smascherato! -4- Un giorno che era a scuola, successe il disastro. La sua mamma, nel fare le grandi pulizie, scoprì la collezione di occhiali. Li prese per degli stupidi gadget e buttò ogni cosa nella spazzatura! Al suo ritorno, Alessandro non trovò più niente. Si mise a piangere, a gridare, a pestare i piedi. - È un tormentoeeee ! - urlava. Alessandro corse dal venditore di occhiali. Ma il vecchio cinese gli spiegò, sfregandosi le mani, che non possedeva duplicati dei famosi occhiali musicali. Poverino! Come confessare al maestro di musica, ai genitori, ai compagni, agli ammiratori e alle ammiratrici di essere un imbroglione! Tornò a casa e si mise a letto per farsi credere malato. Pensa e ripensa Di colpo balzò giù dal letto e tornò dal venditore di occhiali: -Voglio imparare i vecchi pezzi! - gli disse. - Può lasciarmi esercitare qui da lei, in segreto? Il cinese si sfregò le mani con un sorriso largo così, perché era proprio quello che aveva sperato. -5- Per settimane, per mesi, a mezzogiorno e alla sera, Alessandro prese la strada del piccolo negozio invece di andare a giocare con gli amici. E un po' alla volta imparò il solfeggio. Do re mi fa sol la si do. Facile. Imparò la chiave di sol, la chiave di fa, la chiave di do e tutto il resto del mazzo di chiavi. Un giorno, suonando i vecchi pezzi, riuscì a far cantare il violino. Allora, la pigrizia (o l'abitudine) lo riprese: - Per il prossimo pezzo mi comprerò un paio di occhiali. Il venditore glieli procurò sfregandosi le mani con aria sorniona. Alessandro inforcò gli occhiali e suonò il pezzo senza errori. Era contento. Ma il vecchio scoppiò a ridere riprendendosi i famosi occhiali, ih-ih-ih. Passò le dita nei fori: erano occhiali senza lenti! - Ma allora...? Che significa tutto questo? - Significa - ridacchiò il venditore - che ora conosci la musica e non hai più bisogno di occhiali! Alessandro aggrottò le sopracciglia, «È ancora un tormento» pensò. Ma sollevò l'archetto e suonò di nuovo il pezzo senza occhiali. Quando ebbe terminato, senza una sola nota falsa, restò un momento in silenzio con l'archetto in aria. Era commosso. (Tratto e adattato da: V. Rivais, Calma e sangue freddo!, Trieste, EMME EDIZIONI, 1993)
A16. In questo testo si racconta come cambiano nel tempo il rapporto del protagonista con la musica e la sua capacità di suonare. A questo cambiamento hanno contribuito vari fattori. Indica quali tra quelli elencati sotto. Per ognuno dei seguenti fattori indica se ha contribuito oppure no: f) Il disastro causato dalla mamma -Ha contribuito/ non ha contribuito
ha contribuito
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2018_05_SNV_A
binaria
ha contribuito
non ha contribuito
null
Gli occhiali musicali -1- Alessandro non amava il solfeggio, e addirittura confondeva le note: do re mi sai fo li so da. Che pasticci! Il suo violino strideva: criiiiiiiiiii-ing! - È un tormento! - diceva Alessandro. - Faresti meglio a comprarti un paio di occhiali! - sogghignava il maestro di musica. E così Alessandro si comprò gli occhiali. Il venditore di occhiali musicali era un vecchio cinese curvo e grinzoso; non faceva che ridere con aria beffarda, stropicciandosi le mani: - lh-ih-ih! So bene che cosa ti occorre! Eccoti degli occhiali per leggere il tuo metodo di solfeggio! -2- Erano occhiali prodigiosi. Più nessun bisogno di studiare. Alessandro inforcava gli occhiali e suonava tutto lo spartito senza sforzo. - Che progressi! - esclamò il maestro di musica. - Mai visto niente di simile! Alessandro tornò a casa tutto compiaciuto e ripose il violino in un angolo. Non valeva più la pena di affaticarsi. Ma il mercoledì seguente, che disastro! Aperto il «Metodo di violino», Alessandro inforcò gli occhiali, sollevò l'archetto, e... non riusciva a leggere l'esercizio! - Che aspetti per cominciare? - chiese il maestro, impaziente. - Eeeh ....lo ... Glub ...... Non so ..... - farfugliò penosamente Alessandro. Ripose il violino nell'astuccio, richiuse il «Metodo»; e allora capì che cos'era successo! Aveva comprato degli occhiali per il metodo numero uno, e invece era il numero due quello che avrebbe dovuto decifrare: si era sbagliato! E allora? - È vero - disse il vecchio venditore di occhiali sfregandosi le mani. - Per ogni singolo metodo esistono occhiali particolari. Bisogna cambiare occhiali ogni volta che cambi metodo! - È un tormento! - gemeva Alessandro. Comprò un secondo paio di occhiali. -3- - Sono contento di te, - dichiarò il maestro di musica - potresti studiarmi questo pezzo di Bach per la settimana prossima? Era una partitura difficile. Corse dal vecchio cinese, che lo rassicurò. Ma sì, vendeva anche gli occhiali per suonare quel pezzo di Bach. Alessandro comprò gli occhiali. E nelle settimane che seguirono, comprò altri occhiali per suonare pezzi di Mozart, Beethoven e perfino Esposito-Brambilla. Dicevano che era dotato, che leggeva a meraviglia i pezzi più arzigogolati. Un bel giorno il maestro di musica annunciò: - Daremo un concerto. - Eeeh.... lo..... Glub... No grazie... - farfugliò Alessandro. Si vergognava, aveva paura; però possedeva una cinquantina di paia di occhiali musicali. Il concerto fu un successo. Alessandro venne invitato a suonare alla radio, alla televisione, la sua fotografia era sul giornale. Ma ora possedeva quasi trecento paia di occhiali. (Gli succedeva d'altronde di comprare dei pezzi di musica che il maestro non gli aveva chiesto: li suonava a casa, per suo piacere personale.) - lh-ih-ih ! Cominci ad amare la musica! - ridacchiava il vecchio cinese, sfregandosi le mani. Alessandro non rispondeva. Di nascosto, aveva cercato di leggere dei pezzi di musica senza occhiali. Un disastro! Le note si confondevano come prima. Do rol ma fi sa lo si da! Saltabeccavano sugli spartiti come migliaia di pulci! Si nascondevano dietro le stanghette delle battute come tante pecore quando saltano le staccionate! Erano bianche, nere, di tanti colori! E c'erano pause dappertutto, ma le pause più angosciose erano quelle di Alessandro! - È un tormentooooo! - piagnucolava. Aveva una gran voglia di essere smascherato! -4- Un giorno che era a scuola, successe il disastro. La sua mamma, nel fare le grandi pulizie, scoprì la collezione di occhiali. Li prese per degli stupidi gadget e buttò ogni cosa nella spazzatura! Al suo ritorno, Alessandro non trovò più niente. Si mise a piangere, a gridare, a pestare i piedi. - È un tormentoeeee ! - urlava. Alessandro corse dal venditore di occhiali. Ma il vecchio cinese gli spiegò, sfregandosi le mani, che non possedeva duplicati dei famosi occhiali musicali. Poverino! Come confessare al maestro di musica, ai genitori, ai compagni, agli ammiratori e alle ammiratrici di essere un imbroglione! Tornò a casa e si mise a letto per farsi credere malato. Pensa e ripensa Di colpo balzò giù dal letto e tornò dal venditore di occhiali: -Voglio imparare i vecchi pezzi! - gli disse. - Può lasciarmi esercitare qui da lei, in segreto? Il cinese si sfregò le mani con un sorriso largo così, perché era proprio quello che aveva sperato. -5- Per settimane, per mesi, a mezzogiorno e alla sera, Alessandro prese la strada del piccolo negozio invece di andare a giocare con gli amici. E un po' alla volta imparò il solfeggio. Do re mi fa sol la si do. Facile. Imparò la chiave di sol, la chiave di fa, la chiave di do e tutto il resto del mazzo di chiavi. Un giorno, suonando i vecchi pezzi, riuscì a far cantare il violino. Allora, la pigrizia (o l'abitudine) lo riprese: - Per il prossimo pezzo mi comprerò un paio di occhiali. Il venditore glieli procurò sfregandosi le mani con aria sorniona. Alessandro inforcò gli occhiali e suonò il pezzo senza errori. Era contento. Ma il vecchio scoppiò a ridere riprendendosi i famosi occhiali, ih-ih-ih. Passò le dita nei fori: erano occhiali senza lenti! - Ma allora...? Che significa tutto questo? - Significa - ridacchiò il venditore - che ora conosci la musica e non hai più bisogno di occhiali! Alessandro aggrottò le sopracciglia, «È ancora un tormento» pensò. Ma sollevò l'archetto e suonò di nuovo il pezzo senza occhiali. Quando ebbe terminato, senza una sola nota falsa, restò un momento in silenzio con l'archetto in aria. Era commosso. (Tratto e adattato da: V. Rivais, Calma e sangue freddo!, Trieste, EMME EDIZIONI, 1993)
A16. In questo testo si racconta come cambiano nel tempo il rapporto del protagonista con la musica e la sua capacità di suonare. A questo cambiamento hanno contribuito vari fattori. Indica quali tra quelli elencati sotto. Per ognuno dei seguenti fattori indica se ha contribuito oppure no: g) La commozione finale -Ha contribuito/ non ha contribuito
non ha contribuito
['item_297_0.png']
2018_05_SNV_A
binaria
ha contribuito
non ha contribuito
null